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Bomba aumenti agli statali: rischiano di saltare i conti

Con l'incremento di 85 euro agli stipendi della Pa, in bilico la legge di bilancio. Il rinnovo costa 5 miliardi

Bomba aumenti agli statali: rischiano di saltare i conti

La legge di Bilancio 2018, che sarà oggetto della sessione autunnale, parte con gravose ipoteche. Agli oltre 14 miliardi necessari per sterilizzare le clausole di salvaguardia su Iva e accise bisognerà aggiungere altre risorse per far fronte ad alcuni impegni che i governi Renzi e Gentiloni hanno assunto. Al netto della flessibilità che l'Ue potrebbe concedere sugli obiettivi di contenimento del deficit (0,3% del Pil ossia poco più di 5 miliardi), bisognerà decidere come spendere le poche risorse disponibili senza compromettere la traballante architrave costituita da deduzioni, detrazioni e bonus vari.

Il primo punto sul quale concentrarsi è rappresentato dal rinnovo dei contratti degli statali: una mazzata da 5 miliardi di euro che incrementerà la spesa corrente per le retribuzioni facendola tornare ai livelli del 2011. La contrattazione della Pa, infatti, è bloccata dal 2009 e l'ultima manovra del governo Renzi aveva aperto ai rinnovi garantendo un incremento retributivo di 85 euro mensili pro capite. Questa settimana è atteso il via libera del tesoro alla direttiva emanata dal ministro della Pubblica amministrazione Madia.

Considerando anche i contributi si arriva 110 euro mensili per 13 mensilità, ha calcolato Il Sole 24 Ore. Se i 3,26 milioni di dipendenti pubblici dovessero riceverlo tutti occorrerebbero circa 4,7 miliardi cui sommare l'ampliamento degli spazi per le assunzioni nei Comuni con lo sblocco del turnover. In cassa ci sono 2,4 miliardi stanziati dalla legge di Bilancio 2017 equamente ripartiti fra amministrazioni centrali ed enti locali. Serve, dunque, uno stanziamento ulteriore dello stesso importo a meno di non voler ridurre l'entità dell'aumento contrattuale. Senza contare che le intese prevedrebbero la coesistenza degli aumenti con il bonus degli 80 euro che si perde per i redditi compresi nella fascia tra 24mila e 26mila euro che il ritocco delle retribuzioni rischia di far sforare.

Se non si seguisse il sentiero già concordato, le relazioni tra governo e sindacati rischierebbero di inasprirsi proprio alla vigilia dell'importante incontro di domani sulla «fase 2» delle politiche per il welfare. Sul tavolo ci sono due priorità: le pensioni contributive di garanzia per i giovani e la modifica della legge Fornero per evitare che l'età pensionabile salga a 67 anni (attualmente 66 anni e 7 mesi) dal primo gennaio 2019.

Si tratta di un discorso molto complesso che si intreccia con l'obiettivo di incrementare l'occupazione giovanile garantendo al tempo stesso una pensione dignitosa ai giovani di oggi. Tanto il proposito di tagliare il cuneo fiscale sui neoassunti quanto la natura discontinua dei rapporti di lavoro nel mercato attuale incidono negativamente sulle prestazioni pensionistiche futuro. Il segretario del Pd Renzi e il presidente della commissione Lavoro della Camera Damiano pensano a un sostegno pubblico per consentire un assegno dignitoso ai pensionati di domani. Il problema è che, sebbene tali misure si coniughino con l'ipotesi di tagliare o eliminare le pensioni assistenziali, sono molto costose anche se incideranno sui conti pubblici dal 2040 in poi.

La questione principale dell'interlocuzione tra governo e sindacati è comunque cercare un punto di equilibrio, soprattutto sull'età pensionabile. Il discorso sulla decontribuzione per i neoassunti under 35, ripetutamente promessa dal ministro del Lavoro Poletti, si scontra invece con la volontà di Matteo Renzi di metter mano al taglio Irpef. La prima misura costa circa un paio di miliardi a regime. La seconda, invece, impegna almeno 3,5 miliardi per la riduzione di un punto delle aliquote più basse e potrebbe determinare benefici minimi.

Frenare Renzi, però, non è facile.

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