Politica

La bottega dove Muti crea i nuovi maestri

Due settimane di duro lavoro per pochissimi virtuosi selezionati dal grande direttore

Piera Anna Franini

da Ravenna

Lezioni di musica? Di questo si tratta. E di qualcosa di più. È anche una difesa del patrimonio d'Italia quello che Riccardo Muti sta promuovendo a Ravenna. «Avremo tanti difetti ma siamo noi: Italiani». E poco dopo, «siamo molto più raffinati di quello che tanti pensano», ricorda ai ragazzi dell'Italian Opera Academy, la bottega d'opera che forgia direttori d'orchestra e maestri collaboratori. Un'istituzione al terzo anno di vita con quartier generale a Ravenna, Muti al timone, il figlio Domenico al management. Nessun soldo pubblico: ma una cordata di privati. Centinaia di candidature da tutto il mondo, ma solo nove gli ammessi: cinque direttori d'orchestra e quattro pianisti accompagnatori. I ragazzi selezionati costruiscono Aida, opera di Verdi, guidati da Muti che ha messo loro disposizione un cast di cantanti e l'Orchestra Cherubini. I ritmi di lavoro sono mutiani, si parte al mattino e si finisce la sera, dal primo al 14 settembre. Il 12 il Maestro dirigerà una selezione di brani da Aida, mentre il 14 sarà la volta dei giovani direttori.

Il teatro Alighieri è inondato da giovani. Assistono alle lezioni gli studenti delle scuole medie a indirizzo musicale, i più grandicelli già proiettati verso la professione, quindi musicologi e appassionati. Ovunque spartiti e matite per annotare le osservazioni.

Muti si accende quando entra nella musica. Chiede, esige, «non è scritto così» e fa ripetere. «Tu hai talento, l'ho notato subito all'audizione» dice a Hossein Pishkar, persiano, un ragazzo alla Steve Jobs, folle e affamato. Con la partitura sottobraccio, nell'intervallo si fionda sul Maestro chiedendo altre spiegazioni. Kapoo Johannes Ijas, conferma l'ottima tradizione della Finlandia, patria di direttori e piloti di Formula 1, proviene infatti dalla stessa scuola di Esa-Pekka Salonen. C'è una tostissima ragazza austriaca, un armeno, e Marco Bellasi di Milano (Muti non lo sa, ma ha cantato nel coro di voci bianche della Scala, e venne pure diretto da Muti in Mefistofele).

Non v'è nessun direttore di pari o simil rango che dedichi come Muti tutto questo tempo ed energie alla formazione dei giovani. Dal 2004 cresce i ragazzi dell'Orchestra Cherubini, ora c'è l'Academy. È sempre più viva, in lui, la necessità di «trasmettere ciò che ho avuto la fortuna di apprendere dai grandi maestri del passato». Insegna con la stessa convinzione e trasporto con cui sale sul podio delle due orchestre «gioia della vita»: la Chicago Symphony e i Wiener Philharmoniker, il top aldilà e al di qua dell'Oceano. Docenza e le due orchestre sono i pilastri attorno ai quali ruotano altri progetti, come Così fan tutte al San Carlo di Napoli e, sempre nel 2018, Macbeth a Firenze, poi Ravenna, per i 50 anni dal debutto con il Maggio Musicale.

Muti è un pezzo di storia dell'interpretazione, ma prima ancora di Storia italiana Ai ragazzi spiega cosa sia l'Italia. «Non siamo il Paese dello zumpappà», semmai di trame armoniche costruite con la raffinatezza che connota il fare italiano. Un fare di teste e mani intelligenti. «Per troppi siamo ancora il Paese dei pomodori, mozzarella, mandolino e la mamma. Oh! La mamma». Siamo altro. Allora prende le frasi di Verdi e le ripulisce dal kitsch cui siamo avvezzi, ne disvela la classe e l'anima classica. E via con aneddoti di mezzo secolo di carriera. Racconta di quando a Londra chiese di eliminare il cigolio dello scorrimento del sipario, rovinava l'incanto del finale del preludio di Aida. Misero ovatta fra gli anelli. «Se sento un rumore, io non dirigo. È lì che mi sono fatto la fama di essere cattivo. Ma non sono cattivo», spiega ai direttori prendendo in giro la tendenza di tanti colleghi d'ultima generazione che amano il confronto continuo con gli orchestrali. «Lei, clarinetto, che ne pensa? E al contrabbasso piace questo legato?», ironizza su una linea che contraddice il ruolo di leader, perché tale è un direttore. «Noi dobbiamo fare in modo che gli orchestrali possano esprimere il meglio di sé, ma all'interno di un'architettura: e siamo noi a fornirla. Il direttore è il Re. È pagato per esserlo.

E paga per questo».

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