Cronache

Brigatista fantasma da 36 anni ma adesso spunta una traccia

Uccise tre persone a Milano nel 1978 e poi svanì nel nulla. I parenti chiedono la morte presunta, ma il giudice dice no

Brigatista fantasma da 36 anni ma adesso spunta una traccia

Milano - Una traccia, una traccia sottile ma precisa: che riporta indietro l'orologio della cronaca di trentasei anni, nel cuore di una delle pagine più crudeli del terrorismo rosso, e restituisce alle famiglie delle sue vittime la speranza di avere giustizia. Perché Maurizio Baldasseroni, militante di Prima Linea, che insieme a un compagno nel dicembre 1978 ammazzò tre innocenti padri di famiglia con cui aveva litigato al bar, non è morto come vorrebbero far credere i suoi parenti. Lo ha deciso il giudice che ha respinto la dichiarazione di morte presunta che lo avrebbe cancellato per sempre dall'elenco dei ricercati. Non solo non c'è alcuna prova che Baldasseroni abbia lasciato questo mondo; ci sono anche indizi concreti su cui sta lavorando in queste settimane la Procura di Milano, che potrebbero portare a localizzarlo, a chiedere il suo arresto e la sua estradizione per fargli scontare l'ergastolo cui è stato condannato per i suoi crimini. Certo, a meno che non si inventi una storia da perseguitato come quella che sta consentendo a un altro assassino come Cesare Battisti di vivere indisturbato in Brasile.

Milano, via Adige, a Porta Romana. La sera dell'1 dicembre 1978 il destino fa incrociare in un bar le vite di Domenico Bornazzini, Pierantonio Magri e Carlo Lombardi: un investigatore, un tappezziere, un macellaio. Non si conoscono tra loro. E non conoscono i due giovani uomini con cui, come accadeva in quegli anni di passioni intense, finiscono a parlare di politica. Si discute, i toni si alzano, si litiga. Volano parole grosse, anche perché i due hanno alzato il gomito. Fin quando, inferociti, i due giovanotti se ne vanno. Tornano con una Smith & Wesson e un fucile a pallettoni caricato per la caccia al cinghiale. Bornazzini, Magri e Lombardi sono ancora lì che chiacchierano, su un'auto, perché è venerdì sera e si può tirare tardi, e al litigio di poco prima probabilmente manco pensano più. Non hanno scampo. Bornazzini muore subito, Magri riesce solo a dire alla moglie, che abita lì accanto, ed è stata svegliata dai colpi ed è corsa in strada: «Anna ci hanno teso un agguato, ci hanno massacrato senza pietà». Solo Lombardi riesce ad arrivare vivo in ospedale, ma muore per le ferite.

Ci vollero quattro anni di mistero e il pentimento di un militante di Prima Linea per dare una spiegazione alla strage e un nome ai colpevoli: Oscar Tagliaferri e Maurizio Baldasseroni, autonomi diventati parte del gruppo di fuoco milanese di Prima Linea. Vennero condannati all'ergastolo in contumacia.

Un anno fa, un parente di Baldasseroni ha chiesto che il tribunale di Milano dichiarasse la morte presunta del latitante, di cui non si aveva più notizia dal tempo della strage. Ma il giudice Ilaria Mazzei nel settembre scorso aveva sospeso il processo, chiedendo alla Procura della Repubblica di riprendere attivamente le ricerche, abbandonate da anni, dell'assassino. E nei giorni scorsi è arrivata la decisione: il giudice comunica ai familiari di Baldasseroni che la richiesta non può essere accolta, e i familiari revocano l'istanza. A convincere il giudice hanno contribuito i ritagli di giornale del dicembre 1988, quando una notizia dal Perù, confermata dalla Digos di Roma ma poi smentita dal governo di Lima, disse che Baldasseroni e Tagliaferri erano stati arrestati nel paese sudamericano insieme al neofascista italiano Giovanni Ventura, accusato della strage di piazza Fontana. Ma a quella segnalazione oscura e ormai remota qualcosa si è aggiunto in queste settimane, dopo che il pool antiterrorismo della Procura ha riaperto la «pratica Baldasseroni» e ha trovato una pista.

La traccia inizialmente sembrava esile, ma poi ha preso spessore.

E ora potrebbe dare nuova speranza ai figli - allora piccoli, oggi adulti - di quei tre uomini ammazzati da due ubriachi di vino e ideologia.

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