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"È sconcertante: brigatisti assassini con l'obolo di Stato"

L'ex ministro dell'Interno Enzo Scotti sul caso Saraceni: "Farebbero meglio a tacere"

"È sconcertante: brigatisti assassini con l'obolo di Stato"

C'è una sproporzione che toglie il fiato. «Ripenso al mio amico Pino Amato - racconta Enzo Scotti - avevamo trascorso il sabato e la domenica insieme, il lunedì le Brigate Rosse lo uccisero mentre era in macchina come un cane. Oggi gli stessi terroristi di allora aprono la mano e chiedono un obolo allo Stato, come ha fatto Federica Saraceni. Un fatto davvero sconcertante». Anche perché si scopre che Lega e M5s votarono «no» a un emendamento di Forza Italia che avrebbe scongiurato questo oltraggio.

Scotti, 86 anni ben portati, una carriera lunghissima prima nella Dc e poi nella Seconda repubblica, ha vissuto più di un momento drammatico nella guerra in prima linea all'eversione: era ministro del Lavoro quando fu rapito Moro e ministro dell'Interno quando Falcone saltò in aria.

Si aspettava dopo tutti questi lutti, i brigatisti in fila per avere il reddito di cittadinanza?

«Posso dire che con il sequestro e l'uccisione di Moro inizia il lento ma inesorabile declino del brigatismo. Ci sono voluti anni e molti morti ma quell'emergenza è stata superata, anche se io invito sempre a non sottovalutare un fenomeno che può sempre riemergere. Quel che viviamo adesso è solo la conseguenza di un lunghissimo processo di decadenza. Ma c'è di più».

Che cosa?

«Si può provare fastidio o ritenere non opportuna la concessione di un sussidio a chi imbracciava il piccone per distruggere lo Stato. Si può anche pensare che questi signori farebbero bene a tacere e a non avanzare domande, dopo tutto quello che è accaduto. Ma c'è un aspetto che tocca la sensibilità profonda della società che mi colpisce ancora di più: è il fatto che rimangono ancora molte ombre nella storia delle Br. In particolare il radicamento della formazione in un contesto internazionale determinato dagli accordi di Jalta e dalla divisione dell'Europa in due».

Gli ex della lotta armata sostengono di aver detto tutto. Non ci sono doppifondi.

«I dubbi restano».

Quali?

«Contatti insospettabili. Infiltrazioni. Rapporti inconfessabili. Voglio dire che quando un brigatista ritorna sotto i riflettori, io mi aspetto un contributo alla verità, non una richiesta di carità».

Che cosa ricorda della tragedia di Moro?

«Ero ministro del lavoro nel governo Andreotti, voluto dai big della Dc che avevano immaginato una persona duttile come il sottoscritto nel rapporto difficile con i sindacati. L'esecutivo di solidarietà nazionale era nato dopo un lungo parto e infiniti tentennamenti: Berlinguer si era spazientito, ma Moro l'aveva ammonito: Tu guidi, io devo tener conto di tutti. Bene, la linea della fermezza non fu mai messa in discussione, ma negli ultimi giorni c'era un clima di fiducia, di cauto ottimismo. La mattina in cui fu trovato il corpo di Moro, la direzione della Dc stava per riunirsi. C'era la sensazione, magari confusa, che qualcosa potesse maturare e invece tutto finì in quel modo orribile e i brigatisti non attesero nemmeno l'esito di quella riunione. Erano inflessibili, di una durezza disumana, oggi hanno perso ogni ritegno».

Nel 1980 viene ucciso Pino Amato.

«Era sulla mia macchina. Il mio autista, Ciro Esposito, si finse morto, poi sparò e colpì Bruno Seghetti che fu catturato con tutto il commando. Per l'epoca un risultato clamoroso. Posso dirle che Esposito, morto recentemente, ha passato gran parte della vita nascondendosi all'estero per paura di essere ucciso a sua volta. Questa è la storia terribile delle Br».

La sua esperienza al Viminale coincide con la fine dell'emergenza.

«Io fui travolto dalla lotta a Cosa nostra, ma le Br non erano completamente finite, come dimostrano i colpi di coda degli omicidi Biagi e D'Antona. Io mi trovai immerso in un mondo completamente cambiato. I problemi erano il 41 bis, i pentiti, le confische dei patrimoni messi insieme con la violenza e l'intimidazione. Ma c'era continuità nell'azione dello Stato, perché al ministero mi ero portato il prefetto Umberto Improta, uno degli artefici nel 1982 della liberazione del generale americano Dozier. Un successo delle istituzioni che mandò ko le Br.

Restano quelle domande in sospeso, ma non credo avremo mai le risposte che ci spetterebbero».

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