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Brucia in piazza il tricolore. È la Libia a farci la guerra

Su twitter le foto della nostra bandiera in fiamme in piazza. Motivo: 650mila barili di greggio. E l'ambiguità di Renzi

Brucia in piazza il tricolore. È la Libia a farci la guerra

Quel che brucia non è la bandiera italiana, ma il petrolio. Per capire cosa arda sotto le ceneri dei tricolori in fiamme comparsi su twitter e bruciati forse a Derna, forse a Tobruk, forse a Bengasi, bisogna partire da qui. Bisogna partire dalle incerte rotte di Distya Ameya, la petroliera che dopo aver tentato di trasbordare a Malta un carico di greggio imbarcato per conto del «governo» di Tobruk è stata costretta ieri ad entrare nel porto di Zawiya e a riconsegnare il suo carico al governo di «unità nazionale» al potere a Tripoli. Ma bisogna anche seguire le incerte avanzate del generale Khalifa Haftar, il capo di stato maggiore di quelle «forze armate» di Tobruk dato come imminente liberatore di Sirte dalle grinfie dell'Isis. Una figura, quella del capo di stato maggiore Khalifa Haftar, su cui stanno puntando soprattutto i nostri «amici» francesi sempre molto attenti a «controbilanciare» gli interessi italiani in Libia. La vicenda di Distya Ameya, la petroliera battente bandiera indiana inserita nella lista nera dell'Onu dopo esser salpata dalla Cirenaica con 650mila barili di greggio affidati gli dal governo in esilio a Tobruk, è la cartina di tornasole delle difficoltà in cui si dibattono l'esecutivo e il parlamento della Cirenaica. Difficoltà iniziate quando il parlamento di Tobruk si è rifiutato di riconoscere quel governo di «unità nazionale» del premier Fayez Al Serraj messo in piedi dall'Onu con la collaborazione dell'Italia. Da allora l'unica entità legittimata ad incassare i proventi del petrolio libico in ambito internazionale è la «National Oil Corporation» di Tripoli affiliata al governo Serraj. Da allora, come dimostra la vicenda della petroliera, l'oro di Tobruk è un tesoro inutile che nessuno è più disposto né a comprare, né a commerciare. In questo scenario le foto dei roghi delle bandiere italiane disseminate su twitter servono a canalizzare sull'ex nazione colonizzatrice la rabbia di una popolazione che presto ascolterà il governo di Tobruk ammettere di non aver più le risorse necessarie a pagare stipendi e pensioni. Il risentimento nei confronti dell'Italia è però tutt'altro che fittizio. Il nostro Paese ha ampiamente contribuito all'entrata in funzione di quel governo di «unita nazionale» che l'Onu considera ora l'unica entità legittimata a rivendicare la sovranità nazionale e il controllo delle risorse del Paese. Nella complessa fornace libica i fumi del tricolore in fiamme sono anche conseguenza del confuso arrosto politico messo insieme da Matteo Renzi. Un Renzi che quando si è trattato di metter le prime carni al fuoco s'è innanzitutto avvicinato ad Emirati Arabi ed Egitto, ovvero ai due partner internazionali conosciuti come i veri demiurghi di Tobruk e del generale Haftar. Demiurghi da cui s'è progressivamente allontanato quando la mediazione dell'inviato Onu Martin Kobler, un tedesco molto più vicino ad Angela Merkel che non al Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha imposto la scelta Serraj. Ma la decisione di prender le distanze da Tobruk, da Haftar e dunque anche dagli Emirati e da un Egitto, dove siamo alle prese con il caso Regeni, deriva anche dalla struttura geografica degli interessi italiani in Libia. Appoggiare un generale Haftar e un governo di Tobruk ha senso soprattutto per una Francia intenzionata alla difesa e all'ampliamento di commesse petrolifere concentrate in Cirenaica. Ne ha molto meno per un Italia ed un'Eni che sono riuscite, nonostante il caos libico, a mantenere inalterati i livelli produttivi di un settore energetico raggruppato soprattutto in Tripolitania.

Dietro ai fumi dei tricolori bruciati è difficile dunque non intravedere il futuro di una Libia divisa tra gli interessi italiani in Tripolitania e quelli della Francia e del suo alleato Haftar, attenti innanzitutto ai destini delle provincie orientali.

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