Politica

Bruno e Danilo, «traditi» dall'amore per il deserto

I nostri connazionali lavorano da anni in Nord Africa. Calonego era già sfuggito a due agguati

Luigi Guelpa

«Le persone in Libia sono buone, diversamente non sarei rimasto da quelle parti per tutto questo tempo». Rilette oggi hanno il suono di una beffa le parole pronunciate due anni fa al Gazzettino Veneto da Danilo Calonego, 66enne tecnico della Con.I.Cos di Mondovì, rapito lunedì assieme al connazionale Bruno Cacace, a Ghat, nel sud della Libia, città sotto il controllo del governo di unità nazionale di Tripoli. Tra le tante «persone buone» sono spuntate però anche quelle legate ai jihadisti dell'Isis che non hanno esitato a portarli via assieme a un collega canadese di origini italiane, Frank Boccia.

La vita di Calonego è una tavolozza dove le tinte forti dell'avventura sembrano prendere il sopravvento. A internet affida un curriculum asciutto ed essenziale: «ho studiato solo fino alla terza media. Poi apprendistato presso la concessionaria Fiat di Belluno per anni cinque, dopo servizio militare e poi avanti con l'estero». Una voglia quasi spasmodica di girare il mondo e di spezzare la monotonia che ti entra nella pelle soprattutto se sei nato a Peron di Sedico, 340 abitanti aggrappati alle Prealpi Bellunesi. Nel 1979 Calonego è già in Libia e ci è rimasto fino a oggi se si escludono un paio di blitz in Algeria e Marocco, oltre a una toccata e fuga in un Laos definito dallo stesso tecnico veneto «umido e abitato da persone con poca voglia di socializzare». Meglio il deserto, le dune da amare e vivere anche dopo la pensione. Tant'è che Calonego non aveva alcuna intenzione di mettersi in fila all'ufficio postale ogni primo del mese. Pensione da ritirare forse a Marrakech, dove è residente, dove si sarebbe convertito all'Islam adottando il nome di Kareem, e dove vive la seconda moglie. Conosceva la Libia come le proprie tasche e dopo una vita da meccanico di auto e camion si era messo a disposizione della Con.I.Cos.

Il deserto ammalia, ma a volte, dopo aver sedotto, tradisce. Ed è proprio qui che parte il racconto al Gazzettino, dove parla di gente buona, ma anche di una fuga rocambolesca nel 2011, dopo la caduta di Gheddafi assieme a un compagno di lavoro. «Quasi 90 chilometri nel deserto libico e poi siamo entrati nella terra di nessuno, con il rischio di trovare predoni e terroristi. Anche il nostro autista, un tuareg, aveva paura. Poi l'arrivo alla frontiere algerina, gli aiuti ricevuti, il riuscire a raggiungere l'aeroporto di Janet per prendere un volo per Algeri». Nel 2014 aveva dovuto fare i conti con due imboscate da parte dei predoni del deserto, ma in Libia, dopo un breve periodo a casa, aveva voluto ritornarci subito. «Per raccogliere altre storie e scrivere un libro sulla mia esistenza tanto movimentata».

In queste ore, concitate e terribili, forse racconterà del suo sogno da scrittore a Bruno Cacace, 56enne di Borgo San Dalmazzo, 12mila anime alle porte di Cuneo. Qui risiede l'anziana mamma Maria Margherita. Dopo la separazione dalla moglie (dalla quale ha avuto due figlie che vivono a Saint Tropez e Parigi), Cacace si era trasferito dalla madre, anche se nel cuneese ci rimaneva il minimo indispensabile. Anche lui amava lavorare all'estero e conoscere il mondo. Dalla Turchia alla Libia, passando per la Nigeria, sono queste le sue tappe professionali. Avrebbe dovuto rientrare a casa domenica per far visita alla madre. I lavori all'aeroporto della città-oasi di Ghat erano ormai in fase di conclusione. Sarebbe rimasto comunque in Italia per pochi giorni, notizia confermata dalla sorella Ileana. Poi di nuovo Libia, sua patria adottiva da più di 15 anni, ma questa volta Cacace avrebbe raggiunto l'altro sito della Con.I.Cos, a Tripoli. In una zona meno insidiosa.

«La Libia è il suo pane - spiega il fratello gemello Claudio - non possiamo che augurarci che l'esperienza di tanti anni possa aiutare lui e i suoi colleghi a mettersi in salvo».

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