Politica

Cade il tabù Csm. Ma che pena la giustizia nuda

Cade il tabù Csm. Ma che pena la giustizia nuda

Come una municipalizzata qualunque. Come uno dei troppi uffici finiti nelle carte delle tante inchieste che raccontano un Paese slabbrato. Un vortice di incontri, chiacchiere e richieste: il Csm, sia detto senza alcun compiacimento e anzi con dolore, assomiglia terribilmente a una delle Asl finite sotto il tiro incrociato degli appetiti di questo o quel potente. Basta sostituire il nome del politico di turno con quello di un qualche consigliere togato in questi giorni sotto i riflettori e il gioco è fatto.

C'era una volta Palazzo de' Marescialli, tempio immacolato in cui si celebrava solennemente la liturgia della giustizia. Oggi le intercettazioni del caso Palamara sono il metronomo di un rituale vischioso e miserevole: ecco la lottizzazione delle poltrone come nemmeno ai tempi di democristiani e socialisti, lo scambio di favori, i dossier viscidi come calunnie, fabbricati con la stessa malizia artigianale che si trova nei corridoi e nelle stanze di aziende e ministeri. E poi gli incontri carbonari, nel cuore della notte, e i biglietti omaggio, griffati Lotito, per la finale di Coppa Italia. Un mix stagionato di ambizioni, rancori, smanie politiche. Grandeur.

Sembra di stare nei brogliacci delle innumerevoli indagini che hanno esplorato i rapporti obliqui dentro i palazzi del potere. Intrighi. Gossip. Robusti appetiti. Il reato forse c'è e forse no, non è essenziale. C'è invece un fitto network di interessi, relazioni, abboccamenti semiclandestini e soffiate sottobanco. E la disinvoltura di chi pratica metodi non proprio canonici è compagna di viaggio dell'ipocrisia di chi per anni e anni non si è accorto di nulla. Andava bene così.

Il Csm era la trincea della democrazia, per una lunghissima, estenuante stagione il baluardo dell'antiberlusconismo più o meno militante, un faro sempre proteso a illuminare la notte di presunti aggressori senza scrupoli.

Sapevamo che non era così. Bastava dare un'occhiata all'enorme mole di ricorsi presentati da magistrati bocciati nelle loro sacrosante aspirazioni dal Consiglio superiore e rimessi puntualmente in corsa dalle spigolose sentenze del Tar e del Consiglio di Stato. Un cortocircuito imbarazzante e anzi penoso che la dice lunga sul deterioramento dei criteri per le nomine e più in generale sullo scadimento di un mondo che dovrebbe coltivare, secondo l'immaginario collettivo, la sobrietà, la discrezione, l'equilibrio.

Ora è vero, come ha notato il presidente dell'Anm Pasquale Grasso, che non c'è da scandalizzarsi se fra gli interlocutori dei consiglieri in toga ci sono anche onorevoli, visto che nel plenum siedono i membri laici espressi dai partiti. Ma ha altrettanto ragione, per una volta, Piercamillo Davigo: non è il massimo osservare un conciliabolo di toghe che disegnano i futuri assetti della procura di Roma con un inquisito, l'ex ministro Luca Lotti, dalla procura di Roma. E poi predicano che la forma è sostanza.

Ma non è nemmeno questo il punto. Colpisce piuttosto il rumore di fondo, il cicaleccio che tritura ideali, carriere, speranze. L'ego insaziabile di alcuni e, sopra, un velo di cinismo.

Sembra di stare nell'anticamera di qualche ras di Provincia, siamo nel sacrario profanato del nostro diritto.

Commenti