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Il calcio fa litigare i Balcani: Kosovo e Serbia ai ferri corti

Tumbakovic, l'allenatore (serbo) del Montenegro si rifiuta di allenare contro i blu di Pristina: esonerato

Il calcio fa litigare i Balcani: Kosovo e Serbia ai ferri corti

Nell'ex Jugoslavia con il calcio non si scherza. Dalla lotta sul campo di pallone si passa velocemente ai kalashnikov, come è successo all'inizio delle sanguinosa disgregazione del Paese fondato da Tito negli anni novanta.

La Federazione calcistica del Montenegro ha licenziato in tronco l'allenatore della nazionale, il serbo Ljubisa Tumbakovic, che non si è presentato in panchina a guidare la squadra. In segno di protesta perché si disputava la partita con il Kosovo per la qualificazione a Euro 2020. L'incontro è finito «diplomaticamente» 1-1, ma la testa del tecnico è caduta. La Federazione, che si è riunita d'urgenza venerdì sera, subito dopo la partita, «ha deciso all'unanimità di licenziare Tumbakovic a causa della sua scelta di non guidare la squadra, che rappresenta una spiacevole sorpresa e una violazione degli obblighi professionali». Il problema è che il Montenegro, come altri Paesi, riconosce il Kosovo, dopo l'indipendenza unilaterale da Belgrado del 2008, ma la Serbia no. Il tecnico serbo sarà osannato dai nazionalisti per la sua scelta «patriottica». Grazie ai bombardamenti della Nato nel 1999, l'Uck, l'Esercito di liberazione del Kosovo, è riuscito a occupare la provincia ribelle dopo la ritirata delle truppe serbe.

Con la nazionale montenegrina non si sono presentati in campo neppure due calciatori serbi, il difensore Mirko Ivanic e il centrocampista Filip Stojkovic. La Federcalcio locale li ha graziati ritenendo che siano stati vittime «di pressioni. Cose che non hanno nulla a che vedere con lo sport. In questa occasione hanno sconfitto il calcio». L'Uefa ha sempre tenuto Serbia e Kosovo in gironi di qualificazione diversi per gli Europei ma capita che giocatori e tecnici delle due diaspore si trovino ad affrontare una nazionale considerata «nemica» del loro Paese. Ai mondiali in Russia del 2018 c'era stata grande polemica per il gesto dell'aquila bicipite, simbolo dell'Albania, mimato dai «kosovari» Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri dopo le reti realizzate alla Serbia con la maglia della Svizzera.

Ivanic e Stojkovic fanno parte della minoranza serba in Montenegro, ma giocano con la Stella Rossa di Belgrado. Non una squadra qualunque, ma il team che fece nascere fra i suoi hooligan, all'inizio degli anni novanta, le Tigri. Una forza paramilitari serba guidata dal leader degli ultras, Zeliko Raznatovic, meglio noto come Arkan, che si è macchiato di crimini di guerra, come le altre etnie coinvolte nella disgregazione della ex Jugoslavia. Quando lo incontrai nel 1991 vicino a Vukovar, la Stalingrado croata, ammise candidamente: «Noi non torturiamo i prigionieri come fanno con i nostri, ma li ammazziamo, subito, con un colpo di pistola alla testa».

Solo un esempio del perché bei Balcani non bisogna scherzare con il calcio. La tensione fra Kosovo e Serbia è ai livelli di guardia. A fine maggio un raid dei corpi speciali della polizia di Pristina nell'enclave serba nel Nord del Paese ha scatenato una furiosa battaglia. In risposta il presidente serbo Aleksandar Vucic ha ordinato all'esercito lo stato d'allerta. In Kosovo abbiamo ancora un contingente di soldati italiani sotto il cappello della Nato.

Sul piatto ci sono contenziosi non più rimandabili. Prima di tutto il riconoscimento reciproco che Belrgado non vuole digerire. Ieri a Berlino la cancelliera Angela Merkel, ha incontrato proprio il capo dello Stato serbo. Giovedì era arrivato in visita il premier kosovaro Ramush Haradinaj, ex comandante dell'Uck.

Pristina ha imposto dazi del 100% sui prodotti provenienti da Belgrado e non vuole riconoscere l'Associazione dei comuni serbi, circa 100mila persone, con relativa e ampia autonomia. L'obiettivo kosovaro è alzare la posta per ottenere una liberalizzazione dei visti dall'Unione europea. Per questo il governo vuole discutere anche della valle di Presevo, in territorio serbo, ma abitata da albanesi.

Il presidente Hashim Taqi, capo dell'Uck durante la guerra, ha addirittura minacciato di rispolverare l'unificazione con l'Albania vista come fumo negli occhi dai serbi.

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