Politica

Il Califfato vuole dominare le nostre vite

Il terrorismo è il nostro maggior campo di battaglia, il problema bellico più importante del nostro tempo. E ieri ha sferrato un attacco inusitato, prova (...)

(...) che il conflitto innescato dalle primavere arabe fra sunniti e sciiti si è tradotto letteralmente in un esercito di invasati che ci invade con la sua crudeltà senza precedenti, che ci risulta inafferrabile per l'imprevedibilità delle sue continue stragi di innocenti.

La terribile pervasività del terrore islamista durante la giornata di ieri, la sua, tende, innanzitutto, a diffondere un'immagine di onnipotenza, che minaccia chiunque si opponga al piano del califfato universale: gli attacchi di ieri ci ripetono quello che già da tempo la carta geografica ormai tutta macchiata di sangue dovuto al terrorismo islamico ci dice. Ovvero: per te non c'è nascondiglio, se sei contro di me sei potenzialmente un morto che cammina. Se si dovesse scoprire nelle prossime ore che una regìa unica ha messo in moto ieri gli attentati di Lione, del Kuwait, della spiaggia di Sousse in Tunisia, forse finalmente cominceremo a capire che siamo in guerra, e che questa guerra viene condotta da una galassia di gruppi che in Medio Oriente e in Europa riconoscono un capo, Abu Bakr al Baghdadi, o comunque una struttura verticale. Se i tre attentati sono un solo piano, siamo allo stalinismo di Al Baghdadi, e all'attacco generalizzato.

Le sue forze hanno attaccato la Francia con frequenza e determinazione martellante, è un nemico attivo in Medio Oriente, con gli Usa e l'Inghilterra, e nello stesso tempo una grande retrovia musulmana a causa dell'enorme immigrazione; con dispiegamento di forze e fantasia strategica hanno contemporaneamente preso d'assalto anche la Tunisia, un Paese islamico che agli occhi dell'Isis tradisce perché troppo aperto all'Occidente, cerca la moderazione politica e ha fatto del turismo il cuore della sua economia. Il precedente è molto recente e identico, il 18 marzo di quest'anno al Museo del Bardo infatti furono uccise 24 persone. E infine nella stessa giornata abbiamo visto aggredire a morte la moschea sciita della capitale del Kuwait: qui è stato messo in scena, uccidendo almeno 13 persone, la consueta guerra millenaria fra le due anime basilari dell'islam che ha creato quattordici milioni di dispersi e profughi, che ha riempito di disperati i campi in Libano, Giordania, Turchia.

L'Isis ha dato quindi un segnale plurimo di grande strategia: gli interessa attaccare l'Occidente, proprio come faceva Al Qaida, ma tiene al contempo a riempire di terrore quel mondo islamico che vuole conquistare in prima istanza, per procurarsi uno spazio territoriale che sia la base geografica del califfato universale sul mondo intero, e che oggi ha già accorpato Irak e parte della Siria.

La firma più sua l'Isis l'ha lasciata in Francia: una testa mozzata, sfregiata anche da scritte in arabo, infilzata su una cancellata. La perversione programmata è il segnale preferito dell'Isis e il marchio di fabbrica. Non è per una forma di pazzia dell'Isis staccare le teste dal collo a un uomo, non lo è farlo morire affogato in una gabbia, né dargli fuoco con una complicata cerimonia filmata fra mille salamelecchi jihadisti. L'Isis è tutt'altro che un'accolita di matti: il terrore personalizzato, quello che ti fa toccare il tuo proprio collo mentre vedi l'uccisione di James Foley e di tutti gli altri poveri disgraziati, deve spaventare fino alla resa, e così è già accaduto in Irak e in Siria. Ora, deve accadere in Europa e in America. Il soldato Lee Rigby camminava tranquillo per le strade di Londra il 22 maggio 2015 quando lo afferrarono due energumeni jihadisti naturalizzati inglesi e lo ammazzarono tentando di tagliargli il collo. Non erano grandi esperti di decapitazioni come il boia che funge da tagliateste preferito, l'ex disc jockey londinese John, boia professionale. Rendendo la decapitazione il loro segnale hanno terrorizzato il mondo portandone parte alla resa. E adesso si carica la dose con l'attacco di Lione, dopo l'attacco a Charlie Hebdo e dell'Hipercosher, dopo Ottawa, Gerusalemme, la maratona di Boston, il museo ebraico di Bruxelles e quello di Tolosa... e mille altri che rendono la mappa del mondo una trina di sangue. Fa quasi pena sentire François Hollande che dice «ce la faremo». Ma è così che deve dire il leader di una nazione di fronte all'ennesimo attacco ai suoi cittadini? Churchill non si vergognava di odiare i tedeschi, non si tratteneva quando si trattava di minacciarli con un ruggito.

Quando si dice solo «ce la faremo» si indice un senso di incertezza. Del resto ha una sua logica il fatto che non ci si sappia spiegare cosa sia questo maledetto terrorismo per il quale l'Onu, intimidita come al solito, non trova una definizione condivisa. Chi può darsi una ragione del fatto che ci sia chi vuole uccidere mamme e bambini al giardino, amici al bar, scolari sull'autobus? Chi può pensare che non si tratti di pazzi «random», casuali, come li vede Obama, e che invece vadano pensati come un esercito, per di più un esercito religioso e deciso a terrorizzarci per metterci in fuga o combatterci fino alla morte? La loro strategia vuole prima di tutto unificare il Medio Oriente e poi conquistare il mondo ed è razionale, ha le sue buone ragioni, è motivato e preciso, i grandi attacchi, da quello sciita di Buenos Aires nel 1994 a quello sunnita delle Twin Towers hanno sempre dietro un preciso piano, una forza organizzativa, una quantità di denaro. L'Isis oggi, secondo Forbes, ha un budget fra i due e i tre miliardi l'anno, Hamas di un miliardo, le Farc 600 milioni, gli hezbollah 400 milioni...

Loro li investono in un piano, noi non ne abbiamo alcuno per batterli.

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