Politica

Cameron: «Ho pagato tutte le tasse Ricchezza non è una parolaccia»

La relazione del premier inglese sul conto a Panama: «Fondo all'estero perché si commerciava in dollari»

Gaia Cesare

«L'aspirazione e la creazione del benessere non sono parolacce». Giusto «inasprire le leggi» sugli investimenti per tagliare l'evasione fiscale ma «dobbiamo difendere il diritto di ogni cittadino britannico di far soldi». David Cameron scomoda alcuni principi fondamentali del pensiero conservatore per imbastire davanti alla Camera dei Comuni la sua difesa dopo la scandalo dei Panama Papers e il sospetto che il premier abbia eluso o evaso il fisco tramite il fondo Blairmore, la società offshore del padre di cui il leader dei Tory deteneva alcune quote prima di entrare a Downing Street. «Ho venduto ogni titolo per evitare conflitti di interesse», precisa il premier dopo aver definito «offensive e profondamente false» le accuse al padre Ian. Poi entra nel dettaglio: «Tutto è stato registrato, tutto era scritto e tutto era sottoposto alle tasse annuali, perché si trattava di un fondo di investimento commerciale, non famigliare. Il fondo era offshore perché come fondo commerciale aveva senso che avesse luogo in una zona in cui si commerciava in dollari». Infine, per dimostrare di essere credibile, il primo ministro annuncia una serie di misure anti-evasione, tra cui una legge che perseguirà banche e studi legali che aiutano i clienti a scappare dal fisco. In cantiere c'è anche un accordo con i territori britannici d'oltremare. Dal prossimo giugno la Gran Bretagna sarà «il primo Paese del G20 che avrà un registro pubblico delle proprietà», attraverso cui «per la prima volta, la polizia e le forze di sicurezza britanniche potranno sapere esattamente chi veramente possiede e controlla ogni compagnia che si trova in questi territori, Isole Cayman, Isole Vergini, Bermuda, Isola di Man, Isola di Jersey».

Mentre il premier parla ai Comuni è già partita la corsa dei big alla pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi. Cameron ha appena definito la sua una mossa «senza precedenti» ma «necessaria» e ha escluso di voler divulgare le carte della moglie e della madre. A questo punto, per tutti gli altri, tenere il riserbo significa avere qualcosa da nascondere. Così ecco partita la danza dei confronti. Il sindaco di Londra Boris Johnson guadagna più del premier, del ministro delle Finanze e del leader laburista Corbyn messi insieme. Il ministro delle Finanze George Osborne ha pagato più tasse di quanto non guadagni Corbyn e intasca dalle sue azioni più della retribuzione media di un cittadino inglese. Corbyn «il rosso» - che la dichiarazione dei redditi pare se la compili da solo - l'ha inoltrata con almeno sei giorni di ritardo e ha dovuto pure pagare una multa di cento sterline. L'unico a tagliarsi fuori dai giochi è Nigel Farage, il leader euroscettico dell'Ukip con un passato da broker: «Penso che in questo Paese quello che guadagna la gente sia considerato un fatto privato. I vicini odierebbero il pensiero che qualcuno al numero 32 sappia qual è il loro reddito». E invece sembra che d'improvviso la Gran Bretagna, sull'onda dei PanamaLeaks abbia cambiato attitudine. La spiegazione migliore di questo nuovo vento che soffia dalle parti della Manica la dà probabilmente il laburista Corbyn, nel suo affondo contro Cameron, che accusa di «non aver chiarito»: il premier «non capisce quanto la gente sia arrabbiata. Sotto il suo governo «siamo passati attraverso sei anni di schiacciante austerity».

Forse sarebbe stato possibile evitare di «spennare il Paese se i super-ricchi non avessero rifiutato di pagare le loro tasse».

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