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Carrai "graziato" da Casini: respinta la sua audizione

L'amico di Renzi nella bufera per la mail a Ghizzoni non sarà ascoltato dalla Commissione d'inchiesta

Carrai "graziato" da Casini: respinta la sua audizione

Se Matteo Renzi sostiene che non sapeva «assolutamente niente» della mail di Carrai, niente ne vuole sapere neppure Pierferdinando Casini. Così il presidente della Commissione bancaria rifiuta tosto la richiesta di audizione dell'Amico numero uno del Giglio magico, l'uomo dai mille segreti e dei mille misteri. Cioè, forse, l'unico che avrebbe potuto davvero chiarire come andò la questione di un «sollecito» richiestogli da anonimi, che secondo Boschi (e pure Renzi) non configurerebbe una pressione. Considerata la definizione di «pressione» sui maggiori dizionari italiani (dal Devoto Oli al Treccani) e la qualifica del suddetto Carrai - amico da una vita dell'allora premier - se ne deduce che o il Pd vuole prendere per fessi gli italiani, o la situazione è grave ma non seria. «Noi non chiediamo le dimissioni della Boschi, ma la messa di stato d'accusa di un intero governo, il governo Renzi», tuona l'azzurro Renato Brunetta, mentre la polemica esplode all'esterno della vituperata commissione-harahiri (specie sui resoconti assai sommari che ne dà la Rai, e il Tg1 in particolare), ma anche all'interno. Infatti il presidente Casini, che motiva l'esclusione di Carrai dalle «ugole d'oro» con il fatto che «la commissione non è la sede opportuna per la campagna elettorale, basta corride», era reduce da una tirata propagandistica contro l'ex ministro Tremonti che, piuttosto che partecipare a un Grand guignol, non s'è presentato affatto, inviando al consesso una memoria. «Questioni di stile», aveva borbottato un sempre più malmostoso Casini, capendo in che guaio s'è andato a cacciare. Nel suo scritto Tremonti rievoca i tempi del «dolce golpe» del 2011, «il colpo di manovella» che portò alle dimissioni il governo Berlusconi; «dolce solo perché oggi i golpe non si fanno più con le pistole o i carri armati, ma nei salotti e nelle sale cambi e qui con il crepitare degli spread». Non è solo questo, il punto toccato da Tremonti che fa andare ai pazzi i pidini (in primis l'instabile Orfini). Il memoriale ricorda pure come l'autorizzazione all'acquisto di Antonveneta, «la madre di tutte le crisi», fosse stata autorizzata nel marzo del 2008 da Bankitalia. La quale, nel periodo successivo, «non ha mai segnalato al governo criticità di sorta in essere in Mps né in altre banche» (l'acquisizione fu operata comunque nel 2007, ricorda l'ex ministro: era in carica Prodi). Il sistema bancario, in pratica, non se la doveva passare male se, come scrive Tremonti, «ripetutamente e pubblicamente respinse gli apporti di capitale pubblico» offerti dal MEF, «ripetutamente, pubblicamente, senza condizioni». Fatto è, sostiene l'ex ministro, che il sistema bancario privatistico «da un lato rivendicava la sua autonomia e libertà, dall'altro assumeva comunque e in assoluto come negativo, uno stigma, la presenza dello Stato nel proprio capitale». Anche se non proprio di nazionalizzazioni si sarebbe trattato, ma solo di poter fronteggiare meglio la crisi globale del 2008. Sull'affare Antonveneta s'è soffermato ieri anche l'ex direttore generale MEF e poi ministro Vittorio Grilli, che ha ricordato come, nell'autorizzare la Fondazione Mps a indebitarsi per 600 milioni per sottoscrivere l'aumento di capitale per l'acquisto di Antonveneta, il Ministero «mise in guardia la Deputazione amministratrice sui rischi della concentrazione del rischio sulla banca». Del terribile Mps, e dei suoi guai, si parlò anche a Palazzo Chigi nel luglio 2016, ricorda Grilli, in un pranzo tra Renzi e Jamie Dimon di Jp Morgan, «il più grande banchiere mondiale».

Per Renzi, diciamo, un succulento modello da seguire.

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