Politica

Le carte bollate che chiudono l’era gialloverde

Le carte bollate che chiudono l’era gialloverde

Era il governo della sintesi estrema. Il governo degli slogan stringatissimi e dei tweet telegrafici. Ora è diventato l’esecutivo della logorrea e, in questo torrido Ferragosto, tra i romanzi d’appendice è sbarcato anche l’epistolario della crisi. Sì, perché, per spiegare una situazione che sfugge ad ogni logica, il governo del cambiamento ha deciso di togliere dalla naftalina un genere letterario valido per ogni stagione politica: la supercazzola.

Ha aperto le danze il premier Giuseppe Conte, che ha postato sulla sua pagina Facebook una epistola sterminata: 6.036 battute. Sia chiaro: è già abbastanza ridicolo che il presidente del Consiglio, per redarguire il vicepresidente del Consiglio, nel giorno di Ferragosto, pubblichi un appello sui social network. È il suo vice, in Parlamento sono seduti a tre sedie di distanza, non poteva chiamarlo? Mandargli un sms? Convocarlo? Chiedergli salvinianamente di alzare il culo e raggiungerlo? Ma certo che no, nella Terza repubblica i panni sporchi si lavano rigorosamente in pubblico. E noi siamo gli spettatori votanti e pure paganti. Cento lunghissime e contorte righe per dire: caro Matteo, chiudere i porti non serve a un tubo, con me sei stato un collaboratore sleale. Poteva risolvere tutto in poche parole ma, soprattutto, ha avuto bisogno di 14 mesi per capire che la politica sui migranti (del suo governo) è inefficace? Effetti della crisi e del caldo sulla politica.

A stretto giro di post (sempre su Facebook, ovviamente) arriva la replica di Matteo Salvini che - con molta più sintesi, si ferma alle duemila battute scarse – rivendica i frutti del suo operato al Viminale. Così il premier e il suo vice, come in una storia d’amore tra due liceali, continuano a punzecchiarsi via posta. Epperò, come nella trama di un vero romanzo d’appendice, per completare l’opera, spunta pure il terzo lato del triangolo: Luigi Di Maio. Il terzo incomodo. E subito si sente giungere in lontananza la malinconica colonna sonora di Charles Aznavour: «E io, tra di voi, se non parlo mai, ho visto già tutto quanto. E io, tra di voi, capisco che ormai la fine di tutto è qui».

Per favore, immaginiamoci lo sforzo: 15 agosto, caldo tropicale, Di Maio sotto l’ombrellone si mette a scrivere una lettera, giusto per ricordare agli italiani che esiste anche lui, che non ci sono solo gli altri due. Duemilaquattrocentonovantatré battute per non dire nulla. Ma senza un congiuntivo sbagliato. Non è una fake news: nemmeno un errore di grammatica. Di grammatica lessicale, non di grammatica politica. Perché questo epistolario della crisi non è una corrispondenza tra statisti, ma piuttosto un romanzo Harmony.

E ci meritiamo qualcosa di meglio.

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