Politica

"Che cialtroni i grillini". I dem ne sono convinti ma lo dicono in pochi

Calenda, Richetti e Parisi sono usciti allo scoperto. Gli altri si sfogano «off the record»

"Che cialtroni i grillini". I dem ne sono convinti  ma lo dicono in pochi

Tra le bizze di Di Maio, i proclami di Dibba e la (ridicola) attesa fremente del pronunciamento della Casaleggio via Rousseau, il mal di pancia nel Pd cresce.

A taccuini chiusi, quasi tutti gli esponenti dem confidano il proprio imbarazzo, se non rigetto, per gli improbabili partner con cui si trovano costretti a trattare. «Una banda di ricattatori»; «analfabeti della democrazia»; «cialtroni»: sono tra i giudizi più gettonati. Ma, si sa, politics makes strange bedfellows, la politica crea strani compagni di letto. E a opporsi apertamente sono in pochi. Lo ha fatto Carlo Calenda, andandosene addirittura dal partito. Lo ha fatto Matteo Richetti, unico a votare contro il tentativo di governo Conte bis nella Direzione Pd, con parole inequivocabili: «Io dissento dalle idee sulla giustizia di Bonafede, quelle sull'assistenza di Di Maio, quelle sulla democrazia di Fraccaro, quelle sulle infrastrutture di Toninelli, quelle sulla politica estera di Di Battista. Con chi lo facciamo e su che cosa questo governo?».

Lo fa Arturo Parisi, ideatore dell'Ulivo e mente politica del prodismo, nonostante Prodi abbia benedetto la possibile intesa. Proprio Parisi è stato tra i primi a rilanciare il video imbarazzante del Conte 2018 che esultava per il successo elettorale dei Cinque Stelle e che ieri spopolava sui social. Con un commento secco: «Disagio è una parola gentile».

A recuperare dagli archivi il video e ripubblicarlo su Twitter, proprio nel giorno in cui l'aspirante premier-bis giurava di non aver nulla a che fare con il partito della Casaleggio («Definirmi dei Cinque Stelle mi sembra una formula inappropriata»), è stato il giornalista de La Stampa Jacopo Iacoboni, gran conoscitore della macchina da guerra grillina cui ha dedicato due libri inquietanti. Si vede chiaramente l'allora avvocato semplice che ride a sessantaquattro denti e cerca di infilarsi nell'abbraccio da stadio di Gigino Di Maio e Alfonso Bonafede, mentre sugli schermi tv scorrono le proiezioni che attribuiscono il 30 e passa per cento alla lista pentastellata.

Era la notte ormai lontana del 4 marzo 2018, Conte era un neo-adepto che, dopo vari tentativi, aveva finalmente trovato un partito disposto a lanciarlo in politica: era stato calorosamente accolto dalla Casaleggio e infilato nella fanta-lista di fanta-ministri che il fanta-premier Di Maio aveva recapitato fin sul Colle, prima ancora che le urne aprissero. Poi finì per caso a fare il premier gialloverde in quota grillina, ora si ricicla come premier giallorosso ma si dichiara super-partes. E Parisi confessa il proprio «disagio», o peggio.

Come ha fatto a più riprese Stefano Esposito, dirigente torinese e già senatore dem: «Quindi Giuseppe Conte non è il premier indicato dal M5s? A me sembra che questo signore non lavori per trovare una soluzione ma solo per umiliare il Pd», ha twittato l'altro giorno, aggiungendo un icastico: «Vomito».

Ma assai duro è stato anche Matteo Orfini, ex presidente del Pd, che ha più volte richiamato il suo partito ad alzare la voce contro Conte sull'immigrazione e ad avere un po' di schiena dritta: «Se il nostro approccio è discutere di chi sia più o meno poltronista significa che stiamo iniziando a pensare e parlare come loro: è il modo migliore per fare un disastro».

Freddi sull'operazione anche ex ministri come Marianna Madia e sindaci come Giorgio Gori.

E l'ex candidato renziano alla segreteria Roberto Giachetti, chiuso da settimane in un gelido silenzio.

Commenti