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Quello che non dice la condanna di Bossi

Se c’è un leader che non è rimasto incollato alla poltrona quello è il Senatùr

Quello che non dice la condanna di Bossi

Ci sono condanne che segnano l’epilogo. Altre che portano solo una pena: l’amarezza. Chissà come il vecchio leone ha accolto la notizia della sentenza. Da tempo Umberto Bossi ha fatto un passo di lato e ha ceduto lo scettro del Carroccio alle nuove generazioni.

Se c’è un leader che non è rimasto incollato alla poltrona quello è il Senatùr. Noi e i nostri lettori sappiamo che un verdetto di colpevolezza non misura lo spessore di un uomo che ha segnato il nostro tempo e, per la sua parte, l’ha cambiato. La storia della Lega coincide con quella di questo profeta che aveva colto in pieno, con le sue antenne prodigiose, la questione settentrionale quando parlarne era fantascienza. Il visionario di Gemonio ha costruito un partito ma, di più, ha portato a galla questioni profonde e drammatiche che agitavano il cosiddetto ceto medio da Torino a Venezia ma che erano tabù: il fisco rapace, l’insicurezza e l’assenza dello Stato.

Certo, in ogni grande storia ci sono i lati oscuri, le cadute e le pagine venute male: l’Umberto ha pensato la Lega come una grande famiglia, poi la famiglia, ovvero i figli, ne hanno approfittato. Sì, i ragazzi hanno fregato il padre e lui, incalzato con spietatezza darwiniana dalle nuove leve dei Salvini, si è defilato. Comprendendo, da persona intelligente, che certe stagioni finiscono e andare avanti sarebbe solo un inutile e patetico esercizio di galleggiamento.

Un giorno chiesero ad Alessandro Manzoni come mai avesse scritto capolavori e invece i suoi figli non ne combinassero una giusta. Lui, il pio e devoto Don Lisander, rispose con una rasoiata ruvida e perfino volgare: «I libri li ho fatti con il cervello, i figli con il c...».

Coraggio, Senatùr: non risulta a nessuno che lei si sia arricchito guidando il Carroccio o frequentando Roma ladrona. Non l’abbiamo mai vista inseguire laticlavi, premi e onorificenze. Lei è rimasto sempre lo stesso, quando era in prima fila e ora che è ai confini, quasi come un eretico, offre sempre ragionamenti illuminanti, lancia frecciate ai Renzi e ai Salvini che hanno preso il suo posto, dà consigli anche se non sono richiesti.

È questa libertà di fondo, svincolata dai piccoli calcoli quotidiani, quel che più piace al popolo che lo segue da decenni. Umberto Bossi aveva un orizzonte più alto e ha allargato l’orizzonte di migliaia di padani. Impossibile non volergli bene e riconoscere, proprio oggi, che di pesi massimi come lui ne abbiamo contati pochissimi, dai tempi di Mani pulite e della nascita della Seconda Repubblica. Certo, come tutti i precursori ha volato su idee troppo grandi per un Palazzo troppo piccolo. Ha liberato il Nord, ma solo un po’, avrebbe dovuto liberarsi dei robusti appetiti dei suoi ragazzi, ma non ne è stato capace.

Con il suo stile scomposto e mai compiacente, anche esibendo la canottiera, le ampolle e gli elmi, gli è riuscita la cosa più difficile: far sentire a una nomenklatura sorda la voce profonda del Paese.

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