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Sinner, l'italiano che vorremmo tutti essere

Pazzesco. Non poteva essere che così. Doveva essere così la notte di Melbourne, per farci soffrire, sospirare, sperare, sorridere, esaltare, fino a piangere di gioia

Sinner, l'italiano che vorremmo tutti essere

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Pazzesco. Non poteva essere che così. Doveva essere così la notte di Melbourne, per farci soffrire, sospirare, sperare, sorridere, esaltare, fino a piangere di gioia, perché l'italiano che tutti dovremmo essere ha scritto una nuova pagina del nostro grande melodramma, quello in cui di solito ricadiamo nella convinzione che in fondo siamo fatti così. Jannik Sinner invece ci ha dato una grande lezione: se 48 anni fa Adriano Panatta era il simbolo della nostra Dolce Vita, ora lui ci ha rimessi sulla strada che dovremmo percorrere, ci ha dato l'esempio di come potremmo essere davvero, basta solo volerlo. Jannik non è solo il tennis, adesso, ma siamo noi, almeno quelli capaci di tirarci fuori da guai col sacrificio, senza guardare in casa d'altri non pensando mai alla nostra (avete presente la polemica sulla residenza a Monte Carlo?), senza cercare sempre una scappatoia per arrivare al successo. Siamo noi o quello che possiamo essere, italiani diversi che sanno lavorare, far crescere il talento, utilizzare il nostro genio e dominare il mondo.

Poco più di quattro anni fa, al tavolo di un caffè, Sinner raccontava la sue idea, e i cinque set contro Medvedev di ieri, l'altalena di emozioni tra lo sconforto dei primi due e il trionfo finale degli altri tre, insegnano che tutto è possibile. «Mai smettere di combattere», ha scritto poi sui social, mai neanche quando sul 6-3, 5-1 la partita è quasi sfuggita, mai quando ti trovi una palla break che può far finire la rinascita e la cancelli con un servizio senza scampo. Era così che quel ragazzo dal tono educato ma non per questo poco feroce, spiegava come sarebbe diventato un campione. E il cerchio si è chiuso: allora parlava dei suoi genitori un po' ridendo, raccontando di come non gli fosse possibile telefonare in orario di lavoro al maso altoatesino dove lavoravano, per condividere i suoi successi; ieri, molto più serio, li ha rinominati di nuovo: «Non sarei qui se non mi avessero dato la libertà di scegliere». La libertà, quasi un concetto rivoluzionario. Jannik, riservato ieri come oggi, affermava in fondo cose semplici: «Non ho paura a espormi, e non è presunzione. Quando hai le persone giuste sai che puoi a mettere a frutto il tuo carattere. Il mio è di cercare quello che voglio: sarò numero uno». E la serenità con cui lo diceva era talmente disarmante da essere normale, così come lo è il fatto che questo fenomeno tedesco di accento e di modi, è molto più italiano di quanto qualcuno vorrebbe ammettere. È un fuoco dentro, un ghiaccio fuori, è un mix che può funzionare, basta crederci. Basta che ci crediamo.

E quindi eccolo sul podio del suo primo grande successo, con in mano la coppa che realizza i sogni di bambino. Eccolo il primo italiano a vincere in Australia, nella Rod Laver Arena davanti a Rod Laver in persona, l'unico ad aver fatto un grande Slam (1969, il secondo dei due) nell'era Open del tennis. Eccolo ringraziare tutti tra l'emozionato e l'imbarazzato, per concludere alla fine con un «non so più cosa dire, arrivederci». Perché, finita la festa, domani si torna a lavorare: il nostro genio non può avere pause. E perché, anche se spesso ce lo dimentichiamo, sembra davvero pazzesco: siamo italiani come lui.

E lui è l'italiano che saremo: «Questo è solo l'inizio».

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