Cronaca locale

Chiude anche Moreschi. E Vigevano rimane scalza

La città simbolo della calzatura è senza produzione. E sulla piazza che incantò Bocca c'è un negozio solo

Chiude anche Moreschi. E Vigevano rimane scalza

Debiti, per fare debiti, per fare debiti. Se esistono altre prospettive, scusate, non le ho viste... Oggi sarebbe un viaggio al contrario quello di Giorgio Bocca a Vigevano, il paese rimasto scalzo. Oggi con Moreschi che chiude il sito produttivo simbolo della città, il calzolaio di Vigevano fa la fine della casalinga di Voghera. Nel 1962, dall'elegantissima piazza Ducale, Bocca metteva metaforicamente le dita sul polso dell'Italia e scopriva il boom economico. Oggi, osservando la stessa piazza, sarebbe costretto a constatare che affacciato sotto i portici è rimasto un solo negozio di scarpe (Calzoleria Sguazzini, che però non produce), che il mitico Gravati ha chiuso i battenti, che le saracinesche di un sacco di esercizi sono rimaste abbassate e che proliferano solo posti in cui si mangia o si beve. Se usassimo metaforicamente le stesse due dita sullo stesso polso, faticheremmo a trovare i battiti del nostro Paese. Scarpe diem. Vigevano si è impiccata a una stringa. E il resto dello Stivale la segue.

Però nel salotto della città c'è una libreria, quelle che erano scomparse nel 1962 lasciando spazio ai negozi di calzature e indignando l'allora inviato de il Giorno. E resiste ancora Slz Solazzo, sono artigiani dal 1970 e da venti hanno aperto una boutique attaccata al Duomo «prima eravamo poco più in là... Lo sa che è a Vigevano che si sono inventati il tacco a spillo?» spiegano gli entusiasti responsabili del negozio che sono giovani, alla moda, e determinati a domare l'evoluzione delle esigenze fashion con aurei speroni, anche da qui: «Quando l'azienda è nata, 54 anni fa, faceva stivali da cavallerizzo. Ora la produzione è un po' qui e un po' nelle Marche. Sono cambiate le esigenze ed è cambiata la clientela. Beh, è cambiata tutta la città a dire il vero». In un assolatissimo, caldo pomeriggio di inizio marzo in giro non c'è quasi nessuno. «Era così anche sabato» spiega sconsolata la commessa di Sguazzini che affaccia proprio sul salotto della città. «Se non fosse per le clienti storiche...».

«I primi licenziamenti da Moreschi, di una trentina di persone, risalgono ormai allo scorso luglio. Per ottenere il Tfr e le ultime mensilità hanno dovuto combattere» racconta demoralizzato Piero Marco Pizzi, fondatore del gruppo civico Vigevano Prima di Tutto. Viene da una famiglia di artigiani del settore e non si capacita che sia finito tutto così. Vigevano per le scarpe era come Valenza per l'oro e Sassuolo per la ceramica. Vanno orgogliosi del Museo Internazionale della Calzatura intitolato a Pietro Bertolini e affacciato sulla stessa strepitosa piazza che incantò Bocca. Sono tutti cresciuti a biberon e Lucio Mastronardi qui, e ora che non c'è più boom, non ci sono più scarpe e non c'è più nemmeno Bocca, hanno tutti letto il suo Calzolaio di Vigevano e ora hanno il morale e il Moreschi sotto le suole. «Gli operai sono ancora dentro a lavorare, ma faticano a essere pagati e ogni giorno fanno picchetto dalle 10 alle 11. Quello calzaturiero è un settore in cui il costo vivo della mano d'opera è ancora uno dei più alti. Per questo lasciano a casa la gente» racconta ancora Pizzi «e non immagina su quanto indotto vivesse la città. Una scarpa è fatta di trenta componenti e c'erano praticamente altrettante fabbriche, perché ci sono l'orlatura, il taglio, le suole, le fodere, i sottopiedi...».

Il resto della piana per arrivare qui da Milano è rimasto identico: i vialoni coi palazzi di cemento anni Settanta che via via si trasformano nelle case a schiera di una New Jersey per nani da giardino e poi di nuovo in una striscia d'asfalto in mezzo ai campi con le macchine delle «signorine» parcheggiate in attesa dei clienti. È una volta a destinazione che si capisce che un pezzo di mondo non c'è più. Pensare che a Vigevano continuassero a fabbricare imperterriti tomaie, tacchi, scatole e benessere faceva stare bene tutti quanti. Faceva pensare al fatto che nulla era poi cambiato così tanto. E invece Vigevano che perde le suole è un tempo che si archivia, un'era che si cancella. Un intero settore ucciso ancor prima che dall'economia, dalla metamorfosi sociale: frettolosa, sguaiata, irriflessiva, ingrata.

Oggi camminiamo preferibilmente sulla gomma, gettiamo le scarpe in lavatrice, rinunciamo alle stringhe. E assieme al gusto abbiamo archiviato un sacco di altre cose. Non usiamo più la Polaroid, non affittiamo più film da Blockbuster, non abbiamo più a scommettere al Trotto o a giocare al Casinò di Campione, non ricordiamo cosa sia una macchina per scrivere della Olivetti, non perdiamo più pomeriggi da Fiorucci (il coloratissimo negozio in San Babila a Milano) tra borse di plastica fluorescente, jeans a vita alta, lampadari eccentrici e t-shirt d'importazione. Ci siamo voltati un attimo e non abbiamo ritrovato più niente, non c'è più niente. In un attimo. Come le fabbriche di scarpe a Vigevano. Faceva già impressione a Mastronardi: «Fra questa domenica e la prossima dovranno passare centosessantotto ore, a una a una. Sono passate le centosessantotto ore. Sta finendo un'altra domenica.

Che ne ho fatto di queste centosessantotto ore?».

Commenti