Cronache

Ci spiano Facebook e telefonino. Il Grande fratello fiscale è realtà

L'Erario setaccerà persino i social network per andare a caccia di evasori. E la Cassazione autorizza l'uso dei virus 007 sugli smartphone

Ci spiano Facebook e telefonino. Il Grande fratello fiscale è realtà

Roma - Addio privacy. Nell'era della dipendenza digitale globale non è solo l'indigestione di selfie a far danni. Pc, tablet e smartphone oltre che estensioni delle nostre vite, spalmate attimo dopo attimo sui social network, sono sempre più occhi e orecchie indiscrete, dispositivi che permettono non solo a malintenzionati, ma anche allo Stato, di spiarci ogni minuto, giorno e notte. Due notizie diverse confermano il trend e mettono a dura prova la privacy, violata sull'altare della sicurezza, ma anche - talvolta - sacrificata volontariamente, ma non si sa con quanta consapevolezza.

La prima è la circolare 16/E dell'Agenzia delle Entrate, spedita ai dipendenti dal direttore Rossella Orlandi due giorni fa. Una lettera che spinge i controlli fiscali nel mondo dei social network. «Alle notizie ritraibili dalle banche dati», si legge a proposito degli strumenti di indagine, «si aggiungono quelle che pervengono da altre fonti, ivi incluse fonti aperte». Fonti aperte, come i profili Facebook, Twitter, Instagram dei contribuenti, che offrono - volontariamente, appunto - uno spaccato delle proprie abitudini e, spesso, del proprio tenore di vita. Chi si fa bello postando la foto della barca o dell'auto sportiva dovrà, insomma, prepararsi a renderne conto al fisco. Per la verità, i controlli fiscali social sarebbero già attivi da tempo. Una decina di giorni fa l'Associazione Contribuenti.it ha diffuso i risultati di una ricerca che mostrerebbe un incremento del 270 per cento degli accertamenti fiscali svolti su pizzerie, pasticcerie e ristoranti attraverso Facebook per stanare gli evasori. E risale addirittura a marzo del 2011 - quando a capo dell'agenzia delle entrate c'era Attilio Befera - l'idea di scatenare la caccia «social» ai trasgressori, attivando controlli incrociati tra gli stili di vita ostentati su Facebook e i redditi dichiarati al fisco. Vedremo se la reiterata minaccia di accertamenti sui profili imporrà contenuti più francescani agli adepti del social di Mark Zuckerberg, costringendo il lato esibizionista di molti alla continenza. L'altra nuova nel campo delle minacce alla privacy arriva invece dalla Corte di Cassazione, dove ieri le Sezioni unite penali si sono pronunciate su un tema delicatissimo: l'uso dei trojan «legali» come strumento di intercettazione da parte della magistratura. I dati ottenuti dai software di spionaggio - che permettono alla polizia giudiziaria di controllare in remoto qualsiasi attività e dato presente sui pc, tablet e smartphone «contaminati» dal malware e in uso agli indagati - sono utilizzabili pienamente come prova anche se il decreto di autorizzazione all'intercettazione non indica con precisione il luogo da sottoporre a controllo (impossibile nel caso dei trojan), ma solo per i processi di mafia e di terrorismo. Da un lato il «sì» è un primo grimaldello che permette, pur con dei paletti, l'uso dei «captatori informatici», definiti dalla Suprema corte «strumenti di formidabile invadenza nella sfera della privacy». D'altra parte in questo campo una regolamentazione è doverosa: trojan e spyware «legali» (uno dei leader mondiali è la milanese Hacking Team, «hackerata» a sua volta un anno fa) sono utilizzati da anni, senza troppa pubblicità, da forze dell'ordine e procure.

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