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La commedia della sinistra: dieci anni per non cambiare

Da Veltroni a Renzi, da Prodi a Gentiloni: il Pd resta in ostaggio dei veti. Dal 2007 stessi attori con ruoli diversi

La commedia della sinistra: dieci anni per non cambiare

«I l sistema elettorale tedesco ha notevoli vantaggi: promuove l'aggregazione e garantisce stabilità. Riporta a un rapporto diretto tra i partiti ed elettori». A parlare non sono i sostenitori dell'accordo (saltato) tra Pd e Forza Italia sul Tedeschellum. No, è Massimo D'Alema. E non oggi, ma nel 2007. Già, perché così il primo avversario di Matteo Renzi dieci anni fa dava il via libera allo stesso sistema su cui il leader attuale del Pd aveva trovato intesa, anzi «l'inciucio», con il Cavaliere per le elezioni anticipate.

Questione di ruoli e di giravolte. Non è la sola in un gioco delle parti che in dieci anni di storia piddina riconsegna un déjà-vu di fronde, tiri al bersaglio su governi precari e polemiche interne sul futuro del partito. L'eterno ritorno. Basta riavvolgere il nastro al 2007, quando come oggi c'era un premier in bilico, Romano Prodi, la cui «scadenza» era appesa a riforme e legge elettorale almeno quanto ora lo è quella del presidente del Consiglio «pro tempore» Paolo Gentiloni. Passano gli anni, ma le dinamiche restano le stesse. Insieme al ciclico logoramento dei leader di turno a opera dei colonnelli della sinistra.

Allora c'era un Walter Veltroni reduce dalla trionfale fondazione del Pd al Lingotto. Era lui il segretario di un nuovo partito pronto a staccare la spina al suo esecutivo con lo stesso potere che oggi ha Renzi su Gentiloni, e che ha già esercitato su Enrico Letta. E proprio Letta, un giovane promettente che sarebbe diventato premier, il 7 ottobre 2007 pronunciava una beffarda quanto inconsapevole autoprofezia: «Il Pd nasce per aiutare il governo, non per mettergli i bastoni tra le ruote». Si riferiva a quelle di Prodi. Sette anni dopo avrebbe sperimentato su se stesso la tenacia della «lealtà» democratica. Ma in quel momento gli occhi erano puntati sul tavolo delle trattative del Pd per «arrivare a fine legislatura» con il Professore a Palazzo Chigi. Dove si limava lo stesso schema di legge elettorale su cui un mese fa è naufragato l'accordo tra maggioranza e opposizioni alla Camera per andare al voto anticipato. Ieri come oggi, pure il medesimo interlocutore: Silvio Berlusconi con Forza Italia. E la medesima cantilena della fronda interna contro i vertici del Pd: «L'accordo con Fi è un inciucio». Lo schema, il proporzionale, non convinceva Veltroni né i suoi, tra cui Dario Franceschini (che questa volta alla Camera ha avallato la trattativa con gli azzurri), ma era invece caldeggiato da big come Fassino, Rutelli, lo stesso Letta e appunto, D'Alema. L'arcinemico di Matteo nei giorni in cui Renzi trovava l'intesa con Berlusconi, così dichiarava a Repubblica: «Per quanto mi riguarda avrei preferito una legge elettorale maggioritaria». L'esatto contrario di dieci anni fa. Su una cosa il líder Massimo non ha cambiato idea, anzi, in dieci anni l'ha realizzata: i primi passi di un posizionamento a sinistra sfociato nel divorzio dal Nazareno sono iniziati sotto la guida Veltroni, che invece immaginava un partito forte, maggioritario e autosufficiente, secondo la visione adottata poi dal neo segretario di Rignano.

Così D'Alema mentre dava il via libera al proporzionale preparava il terreno a un'ala sinistra che aveva il volto di Pier Luigi Bersani, in un contrasto mai nascosto con il segretario. Il lento processo di smarcamento si è completato due giorni fa nella piazza di Giuliano Pisapia. È l'operazione 2007 che si ripete: naufragata la legge elettorale, continua il tiro al bersaglio su Gentiloni, l'indebolimento di Renzi, i volti della sinistra a riproporre le stesse polemiche. Cambiando avversari e talvolta opinioni. Nel 2008 sappiamo com'è finita per il Pd alle urne.

Il 2018 è ancora da scrivere.

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