Politica

Contro i diktat, ma mai isolati. Da inglese vi spiego la «Brexit»

Londra è la vera "caput mundi", patria degli scambi e della meritocrazia. Quello che non ci va bene sono decreti, leggine e i politici di serie B

Contro i diktat, ma mai isolati. Da inglese vi spiego la «Brexit»

Girando su e giù per il Regno Unito, si nota qualche differenza rispetto agli altri paesi europei. Certo (come in Irlanda), si guida sempre a sinistra. Le prese elettriche a tre punte (non a due come sul continente). Le monete e banconote (anche se quasi tutti usano solo la carta di credito per pagare, il «cash» fa molto secolo scorso...). I poliziotti non portano le armi; sono al servizio del pubblico, e non «da temere». I politici e le figure pubbliche vengono trattati a pesci in faccia sia dal grande pubblico, che dai media, irrispettosi delle convinzioni politiche, o dello status sociale. Poi, sui palazzi pubblici, c'è una sola asta, non due o tre, come altrove in Europa. Tranne per le ambasciate degli altri paesi membri dell'Ue, la bandiera europea non si vede da nessuna parte in Gran Bretagna.Dietro ognuno di queste «espressioni della diversità», c'è una forte ragione, o logica storica, che nessuno vede il motivo di cambiare ora. E trattandosi di un'isola con forti tradizioni militari che non viene occupata da invasori da quasi mille anni, abbiamo la tendenza a difendere le nostre ragioni con una certa pervicacia: meglio se per via diplomatica che non passando per le armi.Superata la lunga parabola imperiale, quando siamo andati in giro per il mondo a rompere le scatole ai popoli meno sviluppati o più naïf, non cerchiamo di imporre le nostre tradizioni sugli altri, sopratutto i nostri vicini di casa. E ci dà enormemente fastidio quando loro - per quanto paesi amici, sono quasi sempre paesi con delle tradizioni democratiche e parlamentari molto meno stagionate e stabili delle nostre vengono da noi a imporci le loro regole, spesso inventate dieci minuti prima, senza nessun brevetto di funzionalità sperimentata.Non è che la Gran Bretagna voglia vivere in splendido isolamento: basti guardare un po' in giro per capire che Londra (più ormai che New York) è la vera caput mundi. Quello che funziona, o che offre delle solide garanzie (che sia la cucina italiana, o le automobili tedesche o i mobili svedesi se sono migliori dei nostri, allora sono i benvenuti), idem per le risorse umane. Dal professore di neuropediatria cagliaritano al pizzaiolo casertano alla broker milanese, trovano tutti (o tutte) un buon collocamento in questa meravigliosa meritocrazia che abbiamo costruito con molta cura.Quello che non ci va bene invece sono i mille decreti, leggine, diktat, pronunciamenti che arrivano da Bruxelles o da Strasburgo, spesso ideati da politici di serie B (che in patria non hanno avuto successo) ma che hanno trovato il paese di Bengodi in Belgio.

Quando siamo entrati nell'allora Comunità Economica Europea nel 1973 (e mi ricordo benissimo l'evento, l'ho seguito con tutta la curiosità di un ragazzo appena maggiorenne), gli accordi erano proprio quelli: economici e logistici. Nessuno ha mai votato nel referendum del 1975 né per l'unione politica, né per la moneta unica, né per la subordinazione delle leggi britanniche a quelle emanate dalla capitale belga.Quasi tutti gli sviluppi successivi nella storia dell'Unione sono stati contrari ai pareri non solo dei partiti ma degli elettori britannici, ma pur di rimanere buoni amici con i vicini e per fare parte di quel «mercato comune» di cui volevamo fa parte, abbiamo accettato, pur senza entusiasmo, molte novità velleitarie.I popoli britannici inglesi, scozzesi, gallesi e nordirlandesi sono diversi fra di loro per alcuni versi, ma per molti altri, siamo simili (e la nostra piccola «Unione Europea» ha durato ormai più di tre secoli...), e siamo tutti scettici, empirici e pragmatici per natura. La grande scissione da Roma di quasi cinque secoli fa quando Enrico VIII scatenò la Riforma luterana anche oltre la Manica è quasi irrilevante ormai in termini strettamente religiosi, ma in termini culturali, (la maniera di vedere il mondo, e di interagire con gli altri) siamo più protestanti, empirici e scettici più che mai. E direi come noi, i Paesi scandinavi, che anche loro tengono le distanze dalla spinta fortemente integrazionista europea.Per la maggior parte dei britannici, «Bruxelles» viene percepita come «Roma» venne vista dagli inglesi (e non solo il re Enrico) nel Cinquecento un luogo di culto fortemente gerarchico, dogmatico ma inefficiente, corrotto e poco aggiornato ai tempi. Un po' come la Fifa, la corrottissima organizzazione mondiale del calcio, che è stata presa di mira, guarda un po', proprio dai media londinesi, e dall'opinione pubblica britannica.Per fortuna, non c'è proprio un pontefice a Bruxelles, anche se ci sono cinque o sei «presidenti» che amano atteggiarsi da padri eterni. E per fortuna non c'è più un Enrico VIII che vuole la scissione a tutti costi (direi che gli eurofobici, quelli che vorrebbero uscire dall'Unione a tutti i costi) non sono più del 25% degli elettori. Ma quelli nel Regno Unito che vorrebbero una forte Riforma in senso pragmatico, moderno e liberale dell'Unione saranno intorno al 90-95%.Solo alcuni elementi dei sindacati britannici intravedono nell'Ue un «rimedio» contro la politica liberale e filo-mercantile di successivi governi nostrani, sperando che l'assistenzialismo statalista di stile francese o ellenico possa rinascere anche da noi, grazie all'Europa».Chi non ama, o che si diffida, in Italia e altrove in Europa delle convinzioni e dei riflessi radicati dei britannici, tende ad accusarci di essere «isolazionisti». Al contrario, la nostra isola è sempre stata una specie di portaerei, un trampolino da lancio, verso il resto del mondo. Non a caso, Heathrow rimane l'aeroporto internazionale più trafficato d'Europa, e Londra, l'indiscussa capitale del vecchio continente (e si arrangino i parigini, che hanno perso la sfida).

Gli inglesi non vogliono solo avere «meno Europa» (intesa come il nostro rifiuto degli inutili lacci e lacciuoli burocratici e velletari), ma invece avere «più Mondo», aprendosi sempre di più a quello che offre il resto del pianeta, offrendo anche noi quando possiamo, il meglio di quello che vogliamo.

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