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"Così Napolitano tentò anche la Lega"

L'ex capogruppo Reguzzoni: "Disse 'il Cav cadrà, fate voi un altro nome'"

"Così Napolitano tentò anche la Lega"

«Rivedo la scena: Berlusconi si mette le mani sulla testa, scosso. Attraversa la stanza per cercare appoggio su una sedia. Non si aspettava un colpo del genere». Settembre 2010, cinque mesi dopo la rottura di Fini e la spaccatura del Pdl. Marco Reguzzoni, allora capogruppo della Lega alla Camera, entra a Palazzo Grazioli insieme a Umberto Bossi. Non sono attesi, ma la notizia che devono riferire è così importante che ha la precedenza sul protocollo. «Non l'ho mai raccontato ma a sei anni di distanza, e visto che i protagonisti non rivestono più quelle cariche istituzionali, è arrivato il momento. C'erano stati già diversi tentativi per convincere la Lega a mollare Berlusconi e sostituirlo con un altro premier, ma quello di Napolitano è stato il più scorretto».

Torniamo allora a quel settembre 2010.

«L'operazione di Fini non è riuscita, non si è portato dietro abbastanza deputati per far cadere Berlusconi, ed è ormai chiaro che provare a convincere singoli parlamentari è una strada troppo lunga. Bisogna convincere la Lega a levare la stampella, pochi voti e Berlusconi sarebbe saltato in aria».

Ripetere insomma lo schema del '94...

«Esatto. Fini, in colloqui riservati sia con Bossi che con me, ci stava già provando da mesi. È assolutamente necessario sostituire Berlusconi, fate voi un nome, ci diceva. Ma era inutile. È allora che scende in campo direttamente il capo dello Stato. Giorgio Napolitano. Mi convoca al Quirinale. Solo io, come capogruppo della Lega. Mi rappresenta la importanza della sostituzione del premier con un'altra figura, di gradimento nostro ma diversa da quella del presidente Berlusconi. Me ne parla come di una sostituzione inevitabile, voleva sapere se la Lega sarebbe stata della partita. Gli dissi che non eravamo disponibili. Rispose: lo sarete più avanti».

Vennero fuori dei nomi di premier alternativi? Tremonti?

«Posso dire che dalle sue ne emersero altri due».

Maroni, Fini, Casini?

«Non insista. Comunque Fini no, Napolitano sapeva che non sarebbe mai stato di nostro gradimento. Rispondo che non se ne parla, che la Lega non è disponibile. E lui mi replica in un modo sorprendente. Mi dice: Io ho informazioni diverse».

Informazioni diverse?

«Gli rispondo: lei è il presidente della Repubblica, io un umile parlamentare di Busto Arsizio alla prima legislatura, finché sono io la Lega alla Camera non è interessata ad alcun cambio di maggioranza. Gli ho poi ricordato umilmente che la sua funzione è fare il notaio della Costituzione, se diceva di avere altre informazioni stava andando oltre la funzione costituzionale. A quel punto scende il gelo, lui si affretta a minimizzare: Ma no, ma si figuri. Gli dico che la Lega è disponibile solo ad uno scenario alternativo, le elezioni. E lui mi tiene venti minuti a spiegare che non poteva sciogliere le Camere. Non è un caso che abbia aspettato settembre e non in primavera, quando è più facile sciogliere le Camere. Era tutto ben studiato».

E a quel punto che succede?

«Lo riferisco a Umberto Bossi, che subito decide di andare a riferire l'accaduto a Berlusconi. Quando lo incontriamo, in una stanza tra la sala da pranzo e lo studio di Palazzo Grazioli, reagisce come le ho raccontato, profondamente turbato dalla notizia. Stava battagliando ogni giorno per tenere insieme il suo partito, e viene a scoprire che il capo dello Stato, che dovrebbe essere garante assoluto di imparzialità, stava lavorando alla sua sostituzione senza che ci fosse alcuna crisi di governo. È stato Bossi a rincuorare Berlusconi: Lo vedi, siamo qui, non cambia niente per noi, dovevi preoccuparti se non venivamo a dirtelo. Bossi non lo ha fatto solo per amicizia verso Berlusconi, ma anche per un calcolo politico: sapeva che volevano far fuori lui per affossare le nostre riforme e piazzare un governo di tecnici. Esattamente quello che è accaduto nel 2011.

Perché non l'avete raccontato subito?

«Una messa in stato d'accusa avrebbe scatenato una guerra furibonda, un disastro, lo spread a mille, le borse a picco, il Paese sarebbe finito in ginocchio. Non ce la siamo sentita.

Sarà la storia a giudicare».

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