Politica

Così il rigore dei tre giudici lascia la politica fuori dall'aula

I componenti della Corte sono di estrazione ideologica differente: se avessero pensato alle conseguenze della sentenza non avrebbero trovato un accordo

I giudici Alberto Puccinelli, Enrico Tranfa e Concetta Locurto
I giudici Alberto Puccinelli, Enrico Tranfa e Concetta Locurto

Milano - Lancette indietro. Un paio di mesi fa, quando si era saputo che ad occuparsi del processo d'appello a Silvio Berlusconi sarebbero stati loro. Tre giudici: il presidente, Enrico Tranfa, e i due a latere, Concetta Locurto e Alberto Puccinelli. I cronisti incrociano uno del terzetto. Chiedono come si prepara alla nuova, delicata grana. Risposta: «Capisco che per voi sia un processo un po' particolare, e che l'imputato viva la cosa con una certa ansia. Ma dovete capire che per noi è diverso. Noi siamo un po' come dei chirurghi. Ci arriva un paziente sul lettino operatorio, guardiamo come è messo, poi tagliamo e cuciamo. Come si chiami è irrilevante».
Lì per lì, erano sembrate parole di difficile interpretazione. Va bene, Berlusconi è un imputato come tutti gli altri. Ma fino a un certo punto. E il processo Ruby è quello che è finito fin nei tg neozelandesi, ha ribaltato un governo, aperto lo scontro finale tra il Cavaliere e la magistratura che gli dà la caccia da vent'anni. Difficile pensare che tre giudici chiamati a svolgere un ruolo cruciale non ne sentissero il peso.

E invece, a quanto pare, è successo proprio questo. Sul tavolo dei giudici c'era l'inchiesta. L'hanno esaminata, aperta, frugata. E hanno concluso che lì dentro non c'era niente che potesse portare a una sentenza di condanna. Sapevano fin dall'inizio che qualunque decisione avessero presa, si sarebbe scatenato un putiferio. E che si sarebbero incrociate le dietrologie. In caso di condanna: «Hanno voluto affossare il dialogo di Renzi con Berlusconi». In caso di assoluzione: «Hanno coperto l'inciucio». Ma chi li conosce sa che in camera di consiglio di politica non si è parlato. Perché sono tre giudici seri. E, dettaglio non irrilevante, perché se si fossero messi a discutere di politica non si sarebbero mai messi d'accordo, tanto diversi sono per storia e appartenenze.

Uno, il presidente Enrico Tranfa, è uno dei «vecchi» del palazzo. È nato a Ceppaloni, il paese di Clemente Mastella, settant'anni fa, e anche lui è politicamente centrista (fa parte della corrente moderata di Unicost). A Milano ha fatto a lungo il giudice preliminare, poi ha presieduto il tribunale del Riesame: dove gli avvocati lo consideravano un osso duro, poco incline a cancellare a cuor leggero gli ordini di cattura. Accanto, nella posizione chiave di giudice relatore, Concetta Locurto: goriziana, in magistratura dal 1990, a differenza di Tranfa decisamente schierata a sinistra, ha fatto parte in quota Area (il cartello delle toghe «progressiste») degli organismi di categoria, ma nel mondo delle toghe gauchiste è considerata una esponente dell'ala garantista. Mentre il terzo membro del collegio, il vercellese Alberto Puccinelli, è visto da dai legali come un giudice particolarmente severo. Dei tre, era l'unico ad avere processato già una volta Silvio Berlusconi: aveva dichiarato prescritta la condanna del Cavaliere per la vicenda delle intercettazioni di Fassino, ma nelle motivazioni non era stato tenero.
Insomma: se in camera di consiglio si fossero chiesti, più o meno esplicitamente, «cosa dirà Napolitano?» avrebbero dato probabilmente risposte opposte.

Invece hanno pensato solo al codice, e in meno di tre ore, tutti d'accordo, hanno assolto l'imputato.

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