Politica

D'Alema versione kamikaze per fare esplodere Renzi

L'ex premier rompe il silenzio e fa a pezzi i vertici del Pd: «Dal malessere può nascere una nuova forza». L'ipotesi Letta

Quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare: e, fedele al motto di John Belushi in Animal House, Massimo D'Alema scende in campo. Il suo bersaglio è ovviamente Matteo Renzi, l'arma che agita è quella della scissione: non per creare «un partitino di sinistra», ma per «ricostruire un centrosinistra alternativo a Renzi», che per un post-Pci come D'Alema ormai incarna praticamente l'Anticristo.Da settimane si susseguivano voci e retroscena che dipingevano l'ex premier come l'allenatore occulto di tutte le operazioni anti-Pd in corso nelle città dove a giugno si vota: D'Alema al telefono con Pippo Civati per scovare un nome sufficientemente sinistro da far perdere Sala a Milano; D'Alema che spinge i bassoliniani alla rottura col Pd a Napoli; D'Alema che fa training autogeno al suo vicino di casa Massimo Bray per convincerlo che da direttore della Treccani può trasformarsi, grazie ai superpoteri dalemiani, in paladino delle masse proletarie di Roma. Ieri ha deciso che fosse il momento di uscire dall'ombra e rivendicare il copyright. E anche di dare una scrollata a quella minoranza bersaniana del Pd che lui giudica inetta (ufficialmente dice: «poco incisiva») e incapace di affondare il colpo per far davvero male al premier. Mettendo seriamente nei guai il povero Roberto Speranza che ieri, sotto le protettive ali di Pier Luigi Bersani, si accingeva ad aprire la tre giorni di intenso pensatoio della sinistra Pd per lanciare la propria candidatura al futuro congresso e tentare la prova di forza con Renzi, con un obiettivo che D'Alema giudica da morti di fame: assicurarsi peso contrattuale negli organismi interni e un numero onorevole di candidature nelle future liste elettorali, onde poter proseguire la guerriglia anti-renziana nella prossima legislatura, ma con un seggio assicurato. Roba da dilettanti, è il parere di D'Alema. Che invece pensa in grande: vede in Renzi e nel suo «partito della Nazione» l'aspirante «erede di Berlusconi», che ha «reciso una parte fondamentale delle radici del Pd» (ossia il Pci da lui incarnato); prevede che «l'enorme malessere alla sinistra del Pd» si traduca nel fatto che «molti elettori ci abbandoneranno»; boccia tutti i candidati Pd alle Comunali, facendo capire che lui certo non voterà Roberto Giachetti a Roma. E spiega che alla fine «qualcuno» riuscirà a «trasformare tutto questo malessere in un partito». Chi, non è chiaro: «Ci sono diverse personalità», assicura lui. Che non pensa certo a Speranza e compagni: se mai, dicono alcuni esegeti, se arrivasse il momento di riprendersi il partito e Palazzo Chigi dall'usurpatore renziano e dal «gruppetto di arroganti» che ha in mano il Pd e che «non mi consulta mai» si potrebbe pensare all'esule parigino Enrico Letta. Il quale, dalla Ville Lumiere, manda un messaggio di affettuosi auguri di «vicinanza e partecipazione» al pensatoio umbro della minoranza. Dalla quale arriva però una inevitabile presa di distanza dall'estremismo dalemiano: Speranza dichiara amore e fedeltà al Pd, «è la più grande speranza d'Italia, è il nostro partito, ci crediamo, lo amiamo», giura. Assicura che «dove ci saranno i candidati e il simbolo Pd ci saremo noi». Spiega che «la nostra battaglia la faremo dentro il Pd». E invita Renzi a «fidarsi del partito». Bersani cerca di trattenersi, ma ci riesce meno: dà a Renzi del «futurista vitalista», avverte che sulla riforma della Costituzione «ci faremo sentire»; incita i parlamentari a «rappresentare e non obbedire» e annuncia che lui la fiducia sulle banche non la vota.

In bilico tra il trattativista Speranza e il kamikaze D'Alema.

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