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Delocalizzazioni, il flop di Di Maio

Annunciava linea dura contro chi va all'Estero: solo slogan

Delocalizzazioni, il flop di Di Maio

«È finita l'epoca in cui le multinazionali firmano gli accordi, prendono soldi dallo stato poi fanno quello che vogliono. Revoco i finanziamenti», diceva a proposito dello stabilimento Whirpool a Napoli, Luigi Di Maio, ministro dello Sviluppo economico. Ministero dove ci sono circa, è una stima perché un elenco ufficiale non c'è, 158 tavoli di crisi che coinvolgono oltre 210mila lavoratori. Una crisi su cinque riguarda aziende che in parte o totalmente sono state interessate da cessazione di attività in Italia per delocalizzazione all'estero. Ebbene secondo l'osservatorio di Check Point promesse, che vigila sull'attività del governo, non c'è mai stata alcuna sanzione o revoca di contributi.

Nonostante risuonino ancora chiari gli annunci e gli slogan del governo gialloverde, che più di tutti ha rafforzato con il decreto Dignità la sua lotta alla delocalizzazione, quelle norme restano sulla carta. Lo conferma lo stesso Mise nella risposta inviata all'osservatorio: «Allo stato attuale non risultano imprese decadute da benefici pubblici né sanzionate per aver delocalizzato». Insomma, scrive Check Point, «in materia né le disposizioni della legge di Stabilità né quelle del decreto Dignità hanno mai trovato applicazione».

Eppure nel mezzo ci sono stati i casi della Treofan di Battipaglia (Salerno), chiusa in gennaio dal gruppo indiano Jindal, della Pernigotti di Novi Ligure, il cui destino è in mano a un gruppo turco, la Knorr che ha spostato una linea di produzione da Verona al Portogallo, la Abb che, alla fine del gennaio scorso ha annunciato lo spostamento di alcune produzioni dalla provincia di Milano a Helsinki. Per non parlare della giungla dei call center, in balia di delocalizzazioni e chiusure continue.

Il dl Dignità di Di Maio prevede per le aziende che spostano la produzione fuori dall'Europa sanzioni pari da 2 a 4 volte il beneficio ricevuto, se lo fanno entro i primi cinque anni dalla fine degli investimenti agevolati. E che gli incentivi vadano restituiti con interessi fino al 5%. Il problema spesso, è che le delocalizzazioni avvengono all'interno del Vecchio continente. I grandi gruppi muovono le produzioni non più solo verso Paesi extraeuropei, come la Cina, per i costi bassissimi. Non serve andare così lontano quando per gli stessi prezzi si può anche rimanere all'interno dell'Europa: le mete sono Bulgaria o in Romania.

E le armi legislative italiane appaiono spuntate.

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