Cronache

Dj Fabo, il pm si ferma «Cappato non lo aiutò a uccidersi in Svizzera»

Chiesta l'assoluzione dell'esponente radicale: «Dobbiamo fare un importante passo avanti»

Dj Fabo, il pm si ferma «Cappato non lo aiutò a uccidersi in Svizzera»

Milano Un abisso tra il buon senso e la legge, tra il comune sentire e la macchina della giustizia. Arriva la puntata finale del processo a Marco Cappato, radicale, accusato di avere aiutato a uccidersi il disc jockey Fabiano Antonioli. La Procura chiede l'assoluzione di Cappato, e probabilmente non c'è una sola persona nella ressa che riempie la Corte d'assise che non condivida la passione civile e le pause di commozione dei due pubblici ministeri, le invocazioni al diritto alla dignità, le lacrime davanti alle frasi di Fabiano prima di morire: «Questa è una vittoria». Ma poi c'è il codice penale, un articolo purtroppo di una chiarezza senza ombre: dice che Cappato ha commesso un reato, come chiunque «rafforza l'altrui proposito al suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione».

Cappato non rafforzò il proposito di «Dj Fabo», che aveva già deciso di morire, ridotto da un incidente stradale a una larva cieca e dolorante. Ma che ne abbia agevolato il suicidio è indubbio: lo aiuta a scegliere la clinica della «dolce morte», lo porta in auto a destinazione, partecipa alle prove generali del suicidio. Ieri, le pm Sara Arduini e Tiziana Siciliano provano a negare anche questo, a dire che non vi fu un «contributo causale», e che se si condannasse Cappato andrebbe incriminato anche il portinaio che aprì il portone della casa dell'infermo, avviato all'ultimo viaggio. Ma sanno bene che non può essere questa la via d'uscita: e a non volerlo è anche l'imputato, che rivendica con orgoglio di avere aiutato Antonioli a morire, sfidando una legge che considera ingiusta.

Così la Procura affronta il tema del diritto al suicidio, del trattamento dei malati terminali, della morte dignitosa. Dj Fabo, spiegano le pm, in base alla legge italiana avrebbe potuto rifiutare le cure: sarebbe morto, certo, ma «il trattamento inumano avrebbe avuto come vittime la mamma e la fidanzata, che dovevano assistere passivamente alla lenta, rantolante agonia del loro congiunto. Una morte che getta nella disperazione quelli che amiamo è una morte dignitosa?».

Il dj aveva diritto di morire, «se per mezz'ora avesse potuto muoversi avrebbe fatto da solo». Ma era immobile, e allora «aveva bisogno di un braccio meccanico che operasse per lui». Questo fu Cappato: l'esecutore indispensabile di una volontà legittima. Se Fabo aveva il diritto di morire, chi lo ha aiutato non può essere punito: è, in fondo, quella che il codice chiama legittima difesa.

Le due pm invocano l'assoluzione «perché il fatto non sussiste», consapevoli di chiedere alla Corte d'assise un atto di coraggio, perché «è una interpretazione innovativa che richiede la volontà di fare un passo avanti molto importante». Certo, le immagini scioccanti degli ultimi istanti di vita di Dj Fabo potrebbero spingere i giurati verso questo atto di coraggio. Ma la legge è netta e una sentenza che la trascurasse precipiterebbe nel caos una materia già drammaticamente complessa. Così le pm indicano alla Corte un piano B: mandare tutto alla Corte Costituzionale, perché sia essa a vagliare e semmai a modificare l'articolo 580, che punisce senza distinguo chi aiuta il prossimo a suicidarsi.

In un modo o nell'altro, dice l'accusa, Cappato non deve essere condannato.

Perché Tommaso Moro, dopo avere teorizzato il diritto al suicidio degli infermi, venne condannato a morte, e cinquecento anni dopo riabilitato e fatto santo: «Non vorremmo vedere oggi la condanna di Cappato e la sua beatificazione tra qualche secolo».

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