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E Matteo fa il piazzista: ​"Il Paese va meglio"

Il premier sfodera l'ottimismo di facciata. Ma i numeri raccontano una situazione diversa

E Matteo fa il piazzista:  ​"Il Paese va meglio"

nostro inviato a Cernobbio (Co)

L'elicottero del premier sorvola Villa d'Este quando l'Istat ha appena certificato la crescita zero italiana. Si direbbe un tempismo poco fortunato, e invece no. Perché insieme a Matteo Renzi atterra su Cernobbio, a beneficio di imprenditori, top manager, banchieri ed élite internazionale ospite del workshop Ambrosetti, un'immagine dell'Italia molto diversa da quella, fiacca e ristagnante, raccontata dai numeri. «L'Italia prosegue la sua lunga marcia», «il Paese va meglio degli anni passati, questo è assolutamente un dato di fatto», «il 2016 si chiuderà meglio del 2015, che si è chiuso meglio del 2014, a sua volta meglio del 2013 e questo del 2012», «il Jobs Act funziona», «abbiamo recuperato 585mila posti di lavoro, avrei firmato per la metà», «il deficit è al livello più basso da 10 anni e continuerà a scendere», «siamo un ciclista che si è rialzato ed è tornato nel gruppo», anche se «andare meglio non significa ancora andare bene, resta molto da fare», concede il presidente del Consiglio, guastando un po' la cartolina colorata dell'Italia in marcia.

Lo storytelling, sempre improntato all'ottimismo governativo, è però cambiato. Renzi, che aveva scalato Palazzo Chigi col mantra della velocità supersonica («O cominciamo a decidere in fretta o gli italiani non ci crederanno più» diceva, «cento giorni per cambiare l'Italia» annunciava), dopo due anni e mezzo di governo ha scoperto le virtù della pazienza e dell'attesa. «Noi non abbiamo fretta», «serve la logica del maratoneta che fa il passo dopo passo, non quella dello sprinter dei cento metri», «la verità ha bisogno del tempo», «no alla dittatura dell'istante» dice adesso Renzi, da politico 2.0 cultore dei tweet a statista zen. Più che ai 30 mesi passati («non so che farmene»), infatti, il premier preferisce pensare «che l'Italia possa essere un luogo di crescita per i prossimi trent'anni, non solo economica». Orizzonte lungo, non c'è fretta. La critica va agli errori del passato, quelli di chi lo ha preceduto. «La riforma del lavoro andava fatta 10-15 anni fa, come la Germania», «noi abbiamo ereditato una situazione di debito pubblico che sappiamo», «negli anni scorsi c'è stata una grande sottovalutazione della questione bancaria da parte del gruppo dirigente del paese, non solo la politica». L'errore, spiega il premier, oltre a quello di avere troppe banche («Ci sono più poltrone e filiali che nel resto del mondo»), è che «i politici hanno pensato di poter continuare ad avere un impatto fortissimo nella gestione delle banche; ogni riferimento a Mps e banche popolari è puramente voluto». Le popolari tra cui Etruria, di cui era vicepresidente il padre del ministro Boschi.

Anche il referendum costituzionale di novembre, che proprio Renzi aveva descritto come lo spartiacque definitivo tra un prima e un dopo, viene ridimensionato negli effetti, spersonalizzato per scongiurarne i contraccolpi. «C'è stato un eccesso di toni, con responsabilità varie, me la prendo anch'io» ammette il premier. Se vince il No, dunque? «Non è la fine del mondo, non c'è l'invasione delle cavallette, tutto resta come adesso: un bicameralismo paritario che gli stessi costituenti non volevano, un sistema barocco che è un elemento di debolezza del sistema Paese». Nel question time a porte chiuse gli viene chiesto di essere più preciso sulle conseguenze per il governo in caso di sconfitta referendaria. Risposta sibillina: «Non ne parlo più, so cosa farò perfettamente ma non lo ripeterò. Il 50-60% è indeciso, sono fiducioso che vinceremo». Nella malasorte, comunque, le responsabilità vanno condivise. «Non decido da solo, ho collaboratori di grande standing, più bravi di me» racconta Renzi alla selezionata platea selezionata. «In politica economica, per esempio, ho seguito la linea Padoan».

Per i decimali deludenti, insomma, citofonare al Tesoro.

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