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E dopo Sorgenia scoppia anche Tirreno Power

Tirreno Power ha le ore contate. E con lei una parte dell'industria energivora italiana. L'accordo di «standstill» (moratoria), firmato quest'estate con una decina di banche per congelare i debiti che gravano sull'azienda (circa 1 miliardo, di cui 861 per cassa), sta per scadere. Il 31 ottobre scatta, infatti, il termine concesso dagli istituti di credito per mettere a punto un riassetto propedeutico al risanamento finanziario. Il gruppo - al 50% della francese Gdf-Suez e al 50% di Energie Italiane (di cui sono azionisti Sorgenia con il 78%, Hera e Iren con l'11% a testa) - punta a ottenere più tempo. E, secondo alcune fonti che hanno partecipato ieri a una conference call tra le parti, la richiesta di una proroga dovrebbe essere al centro di un vertice tra le parti all'inizio della prossima settimana. Tirreno Power conta di poter ottenere una proroga almeno fino a fine anno. Ma teme gli interessi in gioco. Le dieci banche coinvolte hanno, infatti, diverse priorità perché alcune di loro hanno preso parte anche al riassetto Sorgenia, la società elettrica della famiglia De Benedetti (che a inizio del 2015 passerà tecnicamente nelle mani delle banche che l'hanno salvata) e che controlla il 39% di Tirreno Power. È il caso di Bnp, Unicredit, Calyon, Intesa Sanpaolo, Cdp, Mps e Portigon che con Sorgenia e Tirreno Power si trovano, in pratica, nella duplice veste di finanziatori e di soci, seppur di minoranza. Gli altri istituti coinvolti nell'operazione - Bbva, Ing e Mediobanca - sono invece solo finanziatori della società. Singoli interessi a parte, in base agli ultimi sviluppi, sembra comunque inevitabile una proroga. Nessun piano e nessun risanamento potrà infatti avvenire prima che si sciolga il nodo di Vado Ligure, cuore del business di Tirreno Power, dove ha sede una storica centrale termoelettrica che insieme a quelle di Torrevaldaliga Sud e Napoli Levante compone il parco impianti del gruppo. Il sito produttivo è stato sequestrato dal giudice di Savona lo scorso marzo per presunto disastro ambientale e mancato adeguamento ai limiti sulle emissioni imposti dall'Autorizzazione integrata ambientale (Aia).

Ma a sette mesi di distanza, la situazione è più che mai in alto mare. Dopo il fermo, la qualità dell'aria, secondo la Regione Liguria, non è sostanzialmente cambiata. E lo stesso giudice nel provvedimento ha riconosciuto che nessun limite di legge è stato superato dall'azienda, ma che vige un principio di precauzione a motivare il fermo. Nonostante ciò, l'Aia è stata sospesa e per l'azienda si va verso la chiusura «se le richieste per riottenerla non verranno modificate con parametri meno gravosi». In gioco c'è il futuro di 250 lavoratori (800 con l'indotto), ai quali ieri il leader della Cgil, Susanna Camusso, ha promesso la convocazione a breve di un tavolo istituzionale.

Un altro nodo da sciogliere per il premier Matteo Renzi, ma anche per i soci che hanno le mani legate. E per i quali si sta profilando anche una possibile uscita dal capitale. Al momento sembra, comunque, che il piano di salvataggio della società energetica segua le stesse orme di Sorgenia e preveda un aumento di capitale intorno agli 80 milioni da parte dei soci e l'ipotesi di una conversione in capitale di 400-500 milioni di crediti (la cifra esatta dipende dall'esito della battaglia giudiziaria su Vado Ligure) mentre il residuo dovrebbe essere rinegoziato.

Sull'esposizione per cassa la lista degli istituti vede in testa Unicredit e Bnp Paribas con 157,9 milioni a testa, seguiti da Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Cdp, Mps, Ing, Portigon con 78,9 milioni l'una, Calyon con 69,9, Bbva con 9 milioni.

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