Cronache

"Ecco le prove: i pensionati fanno ammalare le mogli"

Depressione, stress, insonnia colpiscono le donne che si ritrovano all'improvviso con i mariti tutto il giorno per casa: "E la sindrome aumenta del 6% ogni anno"

"Ecco le prove: i pensionati fanno ammalare le mogli"

In oltre mezzo secolo di professione, l'avvocato Cesare Rimini ci ha fatto una fortuna. Fu lui stesso, il matrimonialista più famoso d'Italia che assistette Marta Vacondio nel divorzio dal conte Umberto Marzotto, a confessarmelo nel 2003: «Nei rapporti fra coniugi c'è anche il logorio da pensione. Matrimoni che sono andati benissimo per decenni si sfasciano quando lui smette di lavorare. Il marito era sempre in ufficio, aveva il suo vice, disponeva della segretaria, dava ordini. Da pensionato bighellona per casa e magari usa i toni imperativi che adottava in azienda. La pazienza della moglie finisce per esaurirsi».

Magari fosse soltanto questione di pazienza. Le mogli dei pensionati corrono rischi ben più drammatici. Primo: cadono in depressione. Secondo: vivono in condizioni di stress patologico. Terzo: soffrono d'insonnia. E, come se non bastasse, la situazione si aggrava nel tempo: a ogni anno di quiescenza, le probabilità di sviluppare queste sindromi aumentano di un 6 per cento a ritmo costante. In altre parole, se quella santa donna della casalinga sulle prime riesce a tenere botta e a sopportare la presenza fra le mura domestiche del marito collocato a riposo, dopo 10 anni sarà tentata, nel 60 per cento dei casi, di buttarlo dalla finestra o di separarsi. Figuriamoci dopo 20 anni. Insomma, non c'è cura.

A dare per la prima volta fondamento scientifico a quello che fino a ieri era ritenuto un logoro stereotipo è stato Giorgio Brunello, professore ordinario nel dipartimento di scienze economiche e aziendali dell'Università di Padova. Il quale ha condotto un'approfondita indagine insieme con Marco Bertoni, assegnista nello stesso ateneo, pubblicata nella collana dell'Iza, l'Istituto di ricerca indipendente che fa capo all'Università di Bonn, a riprova del valore universale della teoria da essi formulata.

Che a occuparsi di malesseri siano stati due economisti, anziché due medici o due psichiatri, non deve stupire. Innanzitutto perché allo studio relativo a pensionamento ed effetti sulla salute ha partecipato, in veste di consulente, anche Enzo Manzato, docente di medicina interna nel dipartimento di scienze mediche e chirurgiche dell'Università di Padova. E poi perché l'unico modo per investigare sugli stati morbosi indotti dalla pensione era quello di basarsi su dati statistici affidabili, che finora nel mondo sono stati raccolti soltanto dai giapponesi.

Da questo punto di vista, il professor Brunello, 59 anni, originario di Vicenza, era la persona giusta. Subito dopo la laurea, conseguita all'Università Ca' Foscari di Venezia nel 1979 con Ignazio Musu, stava aspettando il rinnovo di una borsa di studio dell'Ente Einaudi fondato dalla Banca d'Italia («non provengo da una famiglia ricca») che gli avrebbe consentito di svolgere il dottorato nella prestigiosa London school of economics di Londra, al quale era stato ammesso dopo aver frequentato un master nella stessa istituzione. Sennonché il contributo tardava ad arrivare e così, su suggerimento di Manuela, la fidanzata, presentò domanda al ministero degli Esteri per una borsa di studio in Giappone. Quella che poi sarebbe diventata sua moglie si trovava già là con analogo assegno della Farnesina. «Quando finalmente arrivò la raccomandata ministeriale di conferma, mio padre, impiegato dell'Inam, a momenti moriva d'infarto. Nel frattempo io ero tornato da qualche mese alla London school of economics. A quel punto Manuela mi raggiunse a Londra e mi convinse a partire per il Paese del Sol Levante. Un bel rischio. Un economista di solito si specializza o nel Regno Unito o negli States. Era però il 1982 e il Giappone assomigliava alla Cina di oggi: una potenza in piena espansione».

Furono sette anni fervidi, prima per il dottorato in economia, poi come lettore e infine da professore associato, nell'Università di Osaka. «Lezioni in giapponese agli studenti giapponesi. Non so che cosa capissero», scherza. Un amore corrisposto, quello per l'Oriente, che lo indusse a rifiutare un incarico al Fondo monetario internazionale: «L'idea di trasferirmi a Washington mi attraeva poco. Non ho niente contro gli Stati Uniti, sia ben chiaro, anzi li ammiro. Ma preferisco lo stile nipponico. Tant'è che ancor oggi torno regolarmente in Giappone come visiting professor». Quando finalmente fu assunto a Osaka in pianta stabile, la nascita del figlio Federico lo convinse che l'Italia non era poi così male: «Crescere un bambino biondo in un Paese tollerante ma molto omogeneo non sarebbe stato facile».

Comunque l'esperienza in Giappone le ha consentito di cimentarsi in una ricerca altrimenti impossibile.

«Sì. La sindrome da pensionamento coinvolge tutte le nazioni industrializzate però lì è molto più accentuata, perché vi è una struttura sociale in cui il marito in carriera sta sempre lontano dalla famiglia, anche il sabato e la domenica. È in tanshin funin, come dicono loro. Espressione intraducibile. In inglese il tanshin funin sha, cioè la persona in questo stato, lo chiamano bachelor husband, marito single, a motivo della perdurante lontananza da casa per lavoro».

Gente che vive solo per il lavoro ce n'è tanta anche in Italia.

«Certo, ma dal punto di vista scientifico era importante trovare la relazione causale. È la depressione della moglie che costringe il marito ad andare in pensione o è il pensionamento del marito a far ammalare la moglie? Noi economisti lavoriamo su dati certi. Per rispondere alla domanda servivano informazioni statistiche di qualità relative a un campione rappresentativo di popolazione».

In Italia non ci sono, in Giappone sì.

«Nel 2012, facendo ricerca per tre mesi all'Università di Osaka, ho scoperto che quell'ateneo da molti anni svolge un'indagine campionaria sul Giappone e sugli Stati Uniti che prende in esame anche questo aspetto della vita coniugale. Il nostro studio s'è concentrato sulle mogli di mariti nati dal 1940 al 1952».

Perché?

«Perché avevamo bisogno di partire da una riforma pensionistica, indispensabile per identificare l'effetto causale. Dovevamo basarci su un dato che non riguardasse le scelte individuali dei mariti, bensì un qualcosa di esterno alla coppia. Dal 2006 il governo giapponese ha imposto alle aziende di mantenere al lavoro fino ai 65 anni quei dipendenti che non intendono andare in pensione a 60 perché ciò comporterebbe una decurtazione dell'assegno per il quinquennio successivo. Ebbene, in queste coorti di mariti, a parità di età, abbiamo notato che le mogli sviluppano meno depressione, in quanto i coniugi rimangono fuori casa per un altro lustro».

Chi ha risposto al questionario?

«Un migliaio di donne, individuate su tutto il tessuto sociale del Paese e interpellate per vari anni di seguito».

Perché delle malattie da pensionamento hanno pensato di occuparsi due economisti anziché due medici?

«Era interessante valutare i costi sociali. La depressione richiede trattamenti sanitari prolungati. Abbiamo osservato che i peggiori effetti negativi sono sopportati dalle donne che hanno un impiego fuori casa, in quanto devono sobbarcarsi all'improvviso anche il peso dei mariti neopensionati. Questo genera danni per la collettività in termini di spese sanitarie e giornate di lavoro perse».

E come si possono abbattere questi costi sociali?

«Semplice: mandando i mariti in pensione il più tardi possibile. In Giappone chi smette a 60 anni ha diritto a essere riassunto, magari con uno stipendio più basso. Alla medesima età, negli Stati Uniti puoi proseguire con un part-time, il cosiddetto bridge job, lavoro ponte».

Restare in una fonderia o alla catena di montaggio della Fiat Mirafiori dopo i 60 anni non credo che sia facile.

«Certamente si tratta di un'opportunità per i colletti bianchi, per chi svolge professioni intellettuali oppure opera nei servizi. Ma dovrebbe far riflettere il fatto che, in Europa, solo il Regno Unito e i Paesi del Nord consentano un'uscita graduale dal lavoro. Altrove, raggiunta una certa età, o ti sbattono fuori o decidi di ritirarti».

Perché la sindrome colpisce solo le mogli e non i mariti che vanno in pensione?

«Colpisce entrambi. Ma le mogli pagano il prezzo più alto perché, molto spesso, i genitori ultraottantenni di lui, specie se vedovi e bisognosi di cure, tendono ad andare a vivere con il figlio finalmente libero dal lavoro. Cosicché una moglie si ritrova ad avere per casa tutto il giorno, oltre al marito, anche la suocera. Una giornalista della Bbc, che mi ha intervistato sull'argomento, mi spiegava che in Gran Bretagna l'impatto negativo di questo cambiamento di vita è assai limitato in quanto il coinvolgimento dei mariti nelle faccende domestiche è molto più forte che in Italia. Ma non so se questo sia vero e comunque non ha valore statistico».

L'età del pensionamento incide sul manifestarsi dei disagi nel coniuge?

«È un aspetto che non abbiamo preso in esame, anche perché nessun giapponese va in pensione prima dei 60 anni. Secondo l'Ocse, anzi, il Giappone è uno dei pochi Paesi al mondo in cui l'età effettiva di pensionamento è superiore a quella ufficiale: 69,7 anni invece dei 64 previsti dalla legge. L'età ufficiale per la pensione di vecchiaia in Italia è fissata a 65 anni, però nei fatti per i maschi scende a 61. Dovremmo renderci conto che in Portogallo si lavora fino ai 67, in Estonia fino ai 66,2, in Svezia fino ai 66, in Svizzera fino ai 65,7».

Mi sta dicendo che in Italia andiamo in pensione troppo presto?

«È così, nonostante le nostre finanze non ce lo consentano. Fino al 1995 si andava in pensione con il sistema retributivo, cioè l'assegno mensile veniva calcolato in percentuale sull'ultimo stipendio o sulla media degli ultimi cinque anni, quando la retribuzione di norma giunge al top. Questo ha dato luogo a storture pazzesche. A fronte di contributi previdenziali per 100.000 euro, poniamo, trattenuti durante l'intera carriera, con il sistema retributivo i lavoratori dipendenti potevano aspettarsi in media dall'Inps 162.000 euro e quelli assistiti dall'Inpdap 268.000. Non parliamo degli autonomi, ai quali l'Inps “restituiva” mediamente addirittura 348.000 euro, vale a dire il 248 per cento in più di ciò che avevano versato».

Ero fermo al fatto che un istituto previdenziale può coprire, con il montante contributivo di una vita di lavoro, solo 11 anni di pensione. Mentre i pensionati campano sino a 90 o 100.

«Alla fine del 1995 negli atenei c'erano ancora segretarie che andavano in pensione a poco più di 40 anni. I professori universitari collocati a riposo ancora oggi con il sistema retributivo godono di condizioni molto favorevoli, che non saranno disponibili per i loro colleghi che andranno in pensione fra 10 o 20 anni».

A che età scatta la vostra pensione?

«A 70 anni. Matteo Renzi vorrebbe abbassare il limite a 68 per chi ha già maturato 40 anni di contributi. Il governo pensa che il numero dei lavori sia fisso, per cui fa posto ai giovani cacciando i vecchi. Un ragionamento insensato, lo dico da economista. Dovrebbe aumentare le occasioni d'impiego, non spartire quelle esistenti. Magari rimettendo le “gabbie salariali”, cioè legando le retribuzioni alla produttività e al costo della vita. Se un'area del Paese non produce, gli stipendi devono essere conseguenti. Perché un docente di Milano guadagna quanto un collega di Palermo, dove il costo della vita è del 30 per cento più basso? Ho tenuto un corso all'Università di Lancaster. Se lo avessi fatto a Londra, avrei percepito la London allowance, un'indennità aggiuntiva, perché nella capitale la vita costa di più».

Teme la pensione?

«Non sono di quelli che vogliono restare a tutti i costi. So che dopo i 65 anni la curva della produttività cala per ragioni fisiche. Ma non smetterò di dedicarmi alle mie ricerche».

Da come vanno i conti del Belpaese, pensa che in futuro ci saranno ancora i pensionati?

«Sì. Ritengo che con la riforma Fornero i conti siano stati messi in sicurezza. Ma si sa che gli economisti non leggono il futuro: troppe variabili in gioco».

L'istituto della pensione a suo giudizio è attuale, perfettibile o superato?

«L'unica alternativa è l'assicurazione privata. Per chi ha un reddito alto, forse funzionerebbe. In Inghilterra esiste l' opting out, la rinuncia al sistema pensionistico, ma solo agli inizi dell'attività lavorativa, quando ti vengono restituiti pochi contributi. È una soluzione che a me non piace. Non nasciamo tutti con gli stessi talenti. Chi ha successo, anche per le sue doti naturali, deve farsi carico dei più sfortunati. Io a questo ci credo».

(724. Continua)

stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

 

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