Politica

Erika vittima del panico in piazza San Carlo «Non c'è più speranza»

La donna, 38 anni, è in coma dal 3 giugno La famiglia: no all'accanimento terapeutico

N on ci sono più speranze per Erika Pioletti, la donna di Domodossola di 38 anni, ricoverata all'ospedale torinese San Giovanni Bosco, rimasta vittima della calca in piazza San Carlo a Torino, la sera del 3 giugno, durante la proiezione sul maxischermo della finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid. La donna ha avuto un infarto provocato dallo schiacciamento del torace. E il bollettino medico recita, senza via di scampo: «Gli esami effettuati hanno accertato un gravissimo danno cerebrale e una prognosi pessima. Pertanto purtroppo ci si aspetta il decesso della paziente in un brevissimo periodo temporale, al momento non quantificabile». Questa è la situazione riportata dalla nota dell'ospedale, che riduce a zero le speranze che la donna possa riprendersi.

Disperata la famiglia, che fino all'ultimo ha sperato in un miracolo e che in questi giorni non ha mai lasciato sola Erika. Così, dopo una dozzina di giorni da quella terribile sera in cui il panico per un possibile attentato ha scatenato un fuggi fuggi che, complice bottiglie di vetro rotte e sparse in ogni angolo della piazza torinese, ha causato 1.527 feriti, per quella che fin da subito era parsa la ferita più grave, anche l'ultimo filo di speranza, si è spezzato. «Le ore passano e le notizie non sono buone» è stato il commento dei familiari di Erika, nata e cresciuta a Beura, ma da circa dieci anni residente a Domodossola. A Torino era andata col compagno, anche lui rimasto ferito ma non in maniera grave. Da una prima ricostruzione di quei momenti concitati, pare che Erika stesse fuggendo insieme ad altre persone, ma chi era con lei è riuscito a mettersi in salvo entrando in un portone, aperto solo a metà. Lei è finita contro la parte chiusa, è caduta a terra e poi è stata travolta. Quei pochi centimetri tra la parte aperta e quella sbarrata del portone nelle vicinanza di Piazza Castello, hanno fatto la differenza tra la salvezza e la morte per Erika.

Da quella sera non ha più ripreso coscienza: travolta dalla folla ha subito un arresto cardiaco da schiacciamento della cassa toracica. Non è stato facile per i sanitari portarla via dal quel caos disordinato di chi scappava, incurante di tutto e di tutti. Dal momento del suo arrivo all'ospedale San Giovanni Bosco è stata ricoverata in rianimazione e tenuta in coma farmacologico. Fin da subito i medici erano stati chiari sulle sue condizioni fisiche, spiegando come i danni subiti a causa del trauma fossero estremamente gravi. «La famiglia ha chiesto che non ci sia accanimento terapeutico - ha detto Sergio Livigni, direttore della terapia intensiva dell'ospedale Giovanni Bosco - Una scelta che noi condividiamo e quindi iniziamo un percorso di desistenza terapeutica». È stato lui, in tutti questi giorni, a seguire Erika e a informare la famiglia con gli ultimi aggiornamenti, che hanno confermato un'elevatissima probabilità che la donna muoia o entri in un stato vegetativo: «La possibilità che ce la faccia è improbabile, l'1 per cento direi» ha spiegato Livigni. Tutti i trattamenti di protezione cerebrale, anche quelli più aggressivi, sono stati utilizzati in questi giorni e ora, ripete il direttore della terapia intensiva: «La situazione è molto delicata. La donna non ha funzioni vitali, il respiro non è autonomo. Se supera questa fase, potrebbe entrare in una condizione di stato vegetativo».

Intanto le indagini per accertare che cosa - o chi - quella sera abbia scatenato il panico durante la partita, si stanno concentrando sulla possibilità che sotto la piazza, con oltre 30mila tifosi, abbia tremato per lo sfiato delle grate di aerazione del maxi-posteggio sotterraneo. Il boato dei motori delle ventole, più qualche petardo da stadio, avrebbero scatenato l'onda di panico.

Questo è' quanto si deduce dalla documentazione raccolta dal pm Antonio Rinaudo e dal procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo, che coordinano le indagini per lesioni plurime colpose.

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