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Etruria, le aziende zombie tenute in vita dalla banca

L'istituto pagava persino l'iscrizione alla Camera di Commercio a imprese in fallimento per mantenere nei bilanci crediti impossibili da recuperare. Il pool dei pm sta indagando

Etruria, le aziende zombie  tenute in vita dalla banca

Tutti i tasselli stanno andando (lentamente) al loro posto. Le indagini dei nuclei di polizia tributaria di Arezzo e Firenze procedono senza sosta, ma ci vorranno ancora giorni per arrivare alla svolta definitiva che ufficializzerà, da parte della procura, l'iscrizione nel registro degli indagati per bancarotta fraudolenta degli ultimi due consigli di amministrazione di Banca Etruria, da quelli dell'ex presidente Giuseppe Fornasari (2009-2014), a quello dell'ultimo, Lorenzo Rosi, dove sedevano i vice Alfredo Berni e Pier Luigi Boschi, padre del ministro Maria Elena. Scava, scava, ogni giorno affiora sempre più marcio sulla scandalosa gestione tenuta per anni dai vertici di questa banca. L'ultima indiscrezione, sibilata da chi prendeva parte alle assemblee e conosceva i meccanismi interni dell'istituto, ma che oggi si tutela con l'anonimato, è che Banca Etruria tenesse in vita aziende già morte pagandogli persino l'iscrizione alla Camera di Commercio. Imprese decotte come quelle del gruppo Saico, amministrate dallo zio della ministra, Stefano Agresti. Curiosamente due membri degli ultimi board di Etruria, Anna Maria Nocentini (in Lapini) e Natalino Giorgio Guerrini, sedevano anche nel consiglio della Camera di Commercio di Arezzo.Il motivo è machiavellico, ma per certi versi molto semplice. Se facendo un'indagine alla Centrale dei Rischi di Banca d'Italia (il sistema informativo sull'indebitamento della clientela verso le banche), verificassimo che Banca Etruria fosse tra i «crediti in bonis», dedurremmo che il bilancio dell'istituto sia falso. È automatico. Vincenzo Imperatore, esperto di mercati bancari, consulenza finanziaria, capitale di rischio e senior consultant di InMind Consulting, ha effettuato un'indagine su un campione di 50 aziende (piccole imprese), in stato di difficoltà e/o di insolvenza, che avevano affidato mandato professionale per la ristrutturazione dei loro debiti (finanziari, tributari e commerciali). Verificando le loro posizioni alla Centrale dei Rischi, è emerso che il 78% erano tra i «crediti in bonis». «Le banche non hanno alcun interesse a girare, in un momento di crisi economica, le posizioni delle aziende che finanziano a crediti deteriorati (sofferenza o incaglio) perché dovrebbe incamerare in bilancio un accantonamento di circa 30 euro, mentre se mantengono la posizione ancora in bonis, incamerano in bilancio solo il costo dell'accantonamento di 2 euro», sostiene Imperatore. In assenza di controlli seri da parte di Bankitalia e Consob, gli amministratori di Banca Etruria non si sono lasciati sfuggire un'opportunità del genere. E questo per non far crollare tutto il loro castello. «Le quattro banche fallite sono solo la punta di un iceberg molto più profondo. Il peggio deve ancora arrivare».

L'attenzione del procuratore di Arezzo, Roberto Rossi e dei suoi sostituti Andrea Claudiani, Julia Maggiore e Angela Masiello, oltre che su tutto il resto, si sta concentrando anche su queste aziende zombie, già morte e sepolte, ma tenute in vita dalla banca per mantenere nei suoi bilanci crediti in realtà impossibili da recuperare.

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