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"A Fermo vincono i media Mancini resta in cella per accontentare la folla"

Il docente gustavo Pansini: l'omicida di Emmanuel deve avere una pena equa. Non pagare il clamore

"A Fermo vincono i media Mancini resta in cella per accontentare la folla"

Roma «È sconcertante la motivazione con la quale il gip di Fermo non convalida il fermo dell'aggressore del nigeriano Emmanuel Nnamdi, ma lo tiene in carcere per il pericolo di reiterazione del reato. Temo che abbia ceduto alla pressione mediatica». L'avvocato Gustavo Pansini, professore emerito di procedura penale ed ex presidente dell'Unione delle Camere penali, legge da giurista l'ordinanza a due facce del giudice Marcello Caporale.

Che c'è di strano nella spiegazione del gip ?

«Mi sembra corretta la sua scelta di non convalidare il fermo, misura cautelare che si decide nell'immediatezza, perché non rileva il pericolo di fuga citato dalla Procura. Non è frequentissima, ma è consentita dal codice anche la scelta di disporre la custodia in carcere dell'accusato Amedeo Mancini. Ma è quando leggo la motivazione che mi pare si sia arrampicato sugli specchi».

Perché?

«Il giudice spiega che lo tiene in carcere non perché è pericoloso per il suo razzismo violento, ma perché non è in grado di non reagire alle provocazioni e, considerando che in città ci sono altre decine di immigrati, è ipotizzabile che possa restare coinvolto in altri episodi simili».

Le sembra una forzatura?

«Mi sembra una motivazione molto stiracchiata: vuol dire che di fronte ad una provocazione si debba rimanere insensibili e non avere reazioni? La decisione risente del clima in città e del clamore provocato attorno al caso da giornali e televisioni, dando in sostanza all'opinione pubblica quello che si aspetta. Sembra di capire che il gip sia stato influenzato dal fatto che se avesse scarcerato Mancini sarebbe successo un putiferio».

E invece non doveva tenerne conto?

«Vede, ho detto più volte che si dovrebbe aggiungere nel codice un articolo sulle esigenze mediatiche oltre che cautelari. Non di rado, pensiamo ai tempi di Tangentopoli, le pressioni dell'opinione pubblica portano a un abuso della custodia cautelare. E così non dovrebbe essere mai».

Secondo lei che ragionamento ha fatto il giudice?

«Ha evitato di essere criticato e forse si è anche preoccupato del fatto che, se avesse messo fuori l'accusato, qualcuno avrebbe potuto ammazzarlo. Traspare anche questo dalla motivazione, ma in caso di pericolo non si può mettere una persona in galera invece di dargli una scorta».

Lei teme, insomma, che in questo caso il giudizio sia lasciato alla piazza?

«Un processo dev'essere veloce, ma non c'è niente di peggio di un processo immediato, dettato dalla risonanza mediatica dell'accaduto, che spesso condiziona pesantemente le scelte dei magistrati. Spero che su questo Mancini, nelle fasi successive, si faccia la necessaria istruttoria e si arrivi a condannarlo ad una pena giusta, perché certo deve pagare per quel che ha fatto. Ma che nulla si decida ab irato».

Per come è cominciata la vicenda giudiziaria, lei teme che invece le decisioni vengano prese non lucidamente, ma sotto l'effetto dell'ira?

«Ricordo una grave storia dell'immediato dopoguerra, a Napoli. Un uomo abbandonato dall'amante si barricò in un basso sequestrando la sorella di 12 anni della donna. Disse alla polizia che cercava di abbattere la porta che ad ogni colpo le avrebbe dato una coltellata. Quando entrarono, era arrivato a 32. Era uno psicopatico, fu subito evidente dal suo comportamento. Il governo alleato chiese la pena di morte, il pm, mentendo, disse che non era consentita per quel reato. Mio padre era il difensore dell'uomo e chiese una perizia psichiatrica, che la Corte d'assise negò. In 3 giorni lo condannò all'ergastolo.

Il consiglio dell'Ordine degli avvocati scrisse una lettera di plauso, che conservo, per il coraggio dimostrato da mio padre, facendo il suo dovere anche nel resistere alle pressioni dell'opinione pubblica».

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