I Castore e Polluce (si fa per dire) del governo italiano si incontrano verso sera nei giardini del Quirinale, entrambi in ghingheri per la festa della Repubblica. Un saluto freddino, una rapida stretta di mano e poi si siedono a due tavoli diversi e distanti, ignorandosi. «Ci vediamo lunedì», fa speranzoso Luigi Di Maio. «Sì, ci si sente», replica Matteo Salvini.
Il leader leghista si è già premurato di far sapere - via cronisti - a Gigino e al povero Conte che non si farà nessun vertice lunedì, come il premier aveva fatto sapere. Si vedessero tra loro, se ci tengono: lui ha altro da fare: «Io da domani a giovedì sono fuori Roma, torno a Roma giovedì sera: difficile vedersi prima», rende noto. Venerdì ci dovrebbe essere un Consiglio dei ministri, magari ci si vede subito prima: fino ad allora, i due grillini possono restare appesi. Un modo per fare spallucce anche alla esternazione solennemente annunciata da Conte: «Lunedì voglio parlare agli italiani», che certamente non aspettano altro. Salvini però non lo ascolterà, a quanto pare: preferisce la campagna elettorale per i ballottaggi. Tanto sa che Di Maio è atterrito da possibili elezioni, e che a Conte (nonostante le fiere veline veicolate ai giornali: «Non si può andare avanti in questo modo, ogni giorno un ultimatum di Salvini: se continua così io torno a fare l'avvocato») non passa neppure per l'anticamera del cervello di dimettersi. Anche perché sul Colle gli hanno fatto capire che, se mai gli saltasse l'uzzolo, non verrebbe certo reincaricato, come sperava. Lui tornerebbe davvero a fare l'avvocato, e le elezioni si avvicinerebbero.
Dunque, Salvini può continuare a lanciare i suoi roboanti ultimatum, provocando i Cinque Stelle e dettando mirabolanti agende economiche, a cominciare da taglio (non si sa con che soldi, ma fa niente) delle tasse: «La prossima settimana - annuncia - userò il consenso che voi mi avete dato non per chiedere una poltrona in più in Italia, chi se ne frega, ma per dire a Bruxelles: lasciateci lavorare e autorizzateci ad abbassare le tasse. Altrimenti lo facciamo lo stesso, e vedremo chi ha la testa più dura». L'accenno alle «poltrone» è chiaro: Salvini sa benissimo che non avrà quei posti chiave nella Commissione che aveva auspicato: gli mancano alleati, neppure i paesi filo-sovranisti stanno con lui. Lancia uno sberleffo alle istanze grilline: «Qualcuno vuole distribuire redditi, ma i redditi non piovono dall'alto. E chi lo paga il salario minimo, se non gli imprenditori?». Quanto al governo, può andare avanti solo ad un patto: «Gli italiani vogliono dei sì: vogliono porti, strade, sviluppo, meno tasse e meno burocrazia. Quindi la politica dei no che anche qualche amico dei 5 stelle ha portato avanti nelle ultime settimane è stata bocciata dagli italiani».
Gli fa eco, con finale minaccioso, il viceministro leghista Garavaglia: «A noi interessa fare le cose. Se arrivano i sì, su Tav, autonomia, crescita, va bene. Se continuano i no meglio andare al voto».
Di Maio cerca di fare buon viso a cattivo gioco, e si vanta di aver stoppato le «sforbiciate lacrime e sangue» contenute nella prima bozza della lettera di Tria alla Commissione: «Oggi la giornata comincia bene. Nella lettera scritta dal Mef all'Ue è stato cancellato il passaggio che prevedeva tagli alla spesa sociale». Poi aggiunge, con una captatio benevolentiae verso Salvini: «L'unica cosa da tagliare sono le tasse ai cittadini».
I grillini insomma resistono, aggrappati al governo: «Nonostante giornate un po' confuse - sospira Stefano Buffagni - serve mantenere lucidità e mettere il bene comune al primo posto». Il bene comune delle poltrone, si immagina.