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È già duello sulla Fornero Ecco perché si può cambiare

La sinistra grida al disastro dopo l'annuncio del centrodestra di rivedere le pensioni: la riforma però costerebbe pochi miliardi all'anno

È già duello sulla Fornero Ecco perché si può cambiare

S'ode a destra uno squillo di tromba: «Toccare la Fornero costerà 140 miliardi!». A sinistra risponde uno squillo: «No, costerà 350 miliardi». Lo scetticismo (e il pressapochismo) con cui la grande stampa italiana ha accolto la proposta programmatica del centrodestra di superare la riforma pensionistica del 2011 è sintomatico dello scardinamento di un totem sul quale il mainstream conformista economico-culturale costruisce quotidianamente la propria supremazia. È lo stesso atteggiamento da sopracciglio alzato che si osserva ogniqualvolta si accenni alla flat tax, altro «demone» di matrice berlusconiana che si oppone alla vulgata «le tasse sono bellissime perché finanziano i servizi sociali».

Occorre, pertanto, partire dai numeri, dai dati di fatto per comprendere se e come la proposta del centrodestra possa essere sostenibile. Secondo le elaborazioni della Corte dei Conti sulla base della Nota di aggiornamento del Def, la spesa pensionistica in Italia nel triennio 2018-2020 dovrebbe mantenersi attorno al 15,3% del Pil. L'incidenza è elevata, il valore assoluto ancor di più poiché nell'arco di previsione dovrebbe passare da 270 a 286 miliardi di euro. Questo trend sollecita gli esperti a suggerire di non manomettere i «meccanismi» fondanti del sistema: adeguamento dell'età pensionabile all'aspettativa di vita e revisione periodica dei coefficienti di trasformazione (i moltiplicatori che «traducono» i contributi in assegno pensionistico).

Ci sono, però, alcune evidenze spesso trascurate che si devono tenere in assoluta considerazione. In primo luogo, l'età effettiva di pensionamento degli italiani è inferiore a quella stabilita per legge. Come emerge dal rapporto Pensions at a glance 2017 dell'Ocse, i nostri connazionali si ritirano poco meno di quattro anni e mezzo prima rispetto alla scadenza dei 66 anni e 7 mesi fissati dalla Fornero, cioè a poco più di 62 anni. Questo avviene spesso perché molti raggiungono il limite dell'anzianità contributiva necessario (attualmente fissato a 42 anni e 10 mesi) e, in parte, perché le otto salvaguardie degli esodati hanno mitigato gli effetti della riforma. Secondo un'analisi dell'Ufficio parlamentare di Bilancio limitata alla fine del 2015, le sei salvaguardie allora vigenti (circa 200mila persone interessate) si sarebbero mangiate il 13% dei risparmi stimati al 2023, cioè 11 miliardi su 87. Ultimo ma non meno importante è il riconoscimento della Ragioneria generale dello Stato ai governi Berlusconi che hanno «prodotto» il 66% del risparmio sulla spesa previdenziale previsto fino al 2070. Lo stesso ragionamento, ma con esborsi molto più contenuti si può replicare per l'Ape social e per la sua recente estensione ai lavori gravosi.

Di che cosa stiamo parlando, dunque? Di null'altro che di un artificio contabile ben congegnato: la riforma Fornero ha solo spostato al periodo 2030-2040 i flussi di pensionamento dei baby boomers (i nati negli anni '60 e agli inizi dei '70) garantendo nell'immediato un risparmio. Di qui gli ululati contro tutte le proposte di stop all'adeguamento dell'età pensionabile che, se si fermasse agli attuali 66 anni e 7 mesi, produrrebbe, a detta della Ragioneria, in virtù dei calcoli attuariali un effetto cumulato di 21 punti di Pil (i fatidici 350 miliardi al 2060). Si tratta, però, di maggiore spesa che presa per ogni singolo anno vale qualche miliardo di euro.

Intervenire con penalizzazioni ulteriori sugli anticipi o rendere interamente contributive le nuove pensioni potrebbe, però, lasciare il quadro pressoché immutato.

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