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Il Giappone è in crisi Ma Abe si dimette perché non alza le tasse

Tokio in recessione, il premier lascia per non aver rispettato l'obiettivo di aumentare l'Iva. E ora stravincerà le elezioni

Il Giappone è in crisi Ma Abe si dimette perché non alza le tasse

Era già qualche settimana che la voce di elezioni anticipate circolava nei corridoi di palazzo a Tokyo. Ieri è arrivato l'annuncio ufficiale. Il primo ministro Shinzo Abe, durante una riunione straordinaria del suo Partito liberal democratico, ha detto che scioglierà la Camera bassa della Dieta giapponese tra due giorni, il 21 novembre. I giapponesi andranno di nuovo al voto probabilmente il 14 dicembre prossimo, con due anni di anticipo. Le elezioni sono state annunciate subito dopo l'uscita dei pessimi dati del Pil di Tokyo, che nel terzo trimestre ha chiuso con un inaspettato passo indietro (-1,6 per cento). Il Giappone è dunque ufficialmente in recessione.

La causa è da cercare soprattutto nella contrazione dei consumi, a sua volta causata dal provvedimento del governo di Abe che ha aumentato l'Iva nell'aprile scorso, facendola passare dal 5 all'8 per cento, come stimolo per battere la deflazione. Adesso l'Amministrazione si vede costretta a rinviare all'aprile del 2017 il secondo rialzo della tassa al 10%, che era previsto, invece, per l'ottobre del 2015. E le elezioni anticipate arrivano per questo motivo. In Giappone funziona così: se devi cambiare qualcosa del programma con il quale sei stato eletto, meglio indire nuove elezioni. Una specie di referendum sul governo. «Voglio chiedere agli elettori se intendono sostenere la mia decisione di rinviare l'aumento delle imposte di un anno e mezzo, ma di non ritardarlo ulteriormente, e se vogliono che io continui a portare avanti questa strategia di crescita», ha detto ieri il premier giapponese, aggiungendo che si dimetterà se la sua coalizione di governo non raggiungerà la maggioranza. È un rischio, certo, considerando che il Partito conservatore di Abe, delle 480 poltrone che compongono la Dieta giapponese, attualmente detiene la maggioranza assoluta con 325 seggi.

È possibile che qualche deputato passi al centrosinistra, ma l'amministrazione di Abe, secondo un sondaggio della Nhk condotto agli inizi di novembre, gode di un consenso del 44 per cento. Per capire quanto rischia il centrodestra basti sapere che il Partito liberaldemocratico, sempre secondo i sondaggi, è al 36,6 per cento, il Partito democratico al 7,9 per cento.

Ma che cosa è successo alla forza rivoluzionaria dell'Abenomics? Tra le riforme strutturali contenute nella famosa «terza freccia», il pacchetto di riforme spiegate da Shinzo Abe durante il forum di Davos del gennaio scorso, c'era il rilancio dei consumi attraverso l'aumento dei prezzi dei beni e l'aumento dei salari. «L'economia giapponese deve concentrarsi soprattutto sul tentativo di liberarsi dalla deflazione cronica», diceva Abe, perché deflazione significa prezzi costantemente al ribasso e stagnazione economica. In realtà i salari per adesso non sono aumentati granché. A essere aumentati sono stati invece i prezzi dei beni di consumi. Lo yen si è indebolito favorendo le grandi compagnie di export manifatturiero, tanto che l'opposizione vuole dimostrare adesso che l'Abenomics non fa altro che arricchire chi era già ricco. La borghesia giapponese, e soprattutto i dipendenti pubblici, preferiscono la deflazione all'inflazione perché i salari restano invariati. Ma mentre i media si concentrano sulle ricette economiche, sugli stimoli della Banca centrale, sulle trovate dell'Abenomics, a Tokyo sanno bene che l'economia reale è soprattutto una questione culturale e sociale.

È difficile far ripartire i consumi in un paese che invecchia rapidamente (il 33% della popolazione ha oltre sessant'anni) e con un declino demografico apparentemente inarrestabile. Abe lo sa, e sa anche che non c'è alternativa alle sue lente e progressive riforme.

A chi lo criticava, ieri, durante la conferenza stampa, ha risposto: non mi pare che fino a oggi siano emerse idee migliori.

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