Referendum indipendenza in Catalogna

Il governo soffoca la rivolta: "Destituiremo i ribelli"

Sciolta l'assemblea catalana ed esecutivo fuori legge Rimosso il direttore dei Mossos, elezioni il 21 dicembre

Il governo soffoca la rivolta: "Destituiremo i ribelli"

Barcellona Ha atteso soltanto la sera di una giornata lunghissima, il premier Mariano Rajoy, per sciogliere il Parlament di disobbedienti della Catalogna, destituire l'esecutivo di Puigdemont e annunciare nuove elezioni il 21 dicembre in Catalogna. L'ha annunciato nell'ultimo Consiglio dei ministri straordinario alle 20.15, dopo che nel pomeriggio aveva incassato il voto a favore del Senato per riportare la legalità nella comunità autonoma.

Ieri mattina, il premier, con tutto il peso della storia di queste settimane sulle spalle, saliva uno dopo l'altro, i gradini del Senato per raggiungere lo scranno più alto e parlare davanti ai 266 senatori, riuniti in assemblea plenaria. Sul tavolo la decisione di fermare la spinta indipendentista della Comunità di Catalogna che, pur avendo più autonomie rispetto ad altre, è giunta, in un escalation di autodecisioni a dribblare Parlamento e Costituzione, autodeterminarsi e rompere con la Spagna, ferita nella sua «indissolubile» unità.

Quarantacinque minuti dopo l'esito del voto di rottura uscito dall'urna del Parlament, il barbuto Rajoy, dipinto dai detrattori come un grigio ragioniere, senza senso sorriso, aveva già twittato: «Lo Stato di diritto restaurerà la legalità in Catalogna».

Ma è stato davanti ai senatori che ha presentato in trenta minuti, lo stato delle cose, chiedendo i poteri per fermare la Generalitat. «È una decisione eccezionale che vi chiedo, in un momento del tutto eccezionale», ha detto Rajoy. «Mai prima di oggi ci siamo trovati in una situazione simile. Vi chiedo l'attivazione dell'articolo 155, non per togliere l'autonomia alla Catalogna, ma per destituire l'esecutivo che ha portato i catalani sulla strada dell'illegalità, al burlarsi delle leggi, dello Stato di diritto e del rispetto per le minoranze». Parole, queste, che hanno suscitato una prima ovazione nell'emiciclo di Madrid. «In Catalogna si è preteso di ignorare le leggi - ha aggiunto il premier -, di disconoscerle, approvando quella che per loro è una nuova legalità ma che per l'attuale Costituzione è una violazione priva di competenze giuridiche. Noi, come governo, non possiamo rimanere indifferenti a tutto questo».

Un discorso terminato con un'ovazione che ha fatto vibrare gli antichi intarsi d'ebano del Parlamento, nel silenzio composto dei senatori di Unidos Podemos e Pnv (nazionalisti baschi), contrari all'applicazione delle misure punitive della Carta. Meno di trenta minuti dopo, con 214 voti a favore e 47 contrari, la Camera alta ha autorizzato il premier a fermare il processo indipendentista di Puigdemont, anche senza il voto di Unidos Podemos, Erc (sinistra catalana repubblicana), Pnv e PDeCat (i centristi separatisti catalani).

Da oggi, con l'uscita di scena del president Puigdemont, del suo vice Junqueras e di tutto il suo entourage, con il pieno sostegno di Parlamento e Senato, Rajoy potrà iniziare a traghettare i poteri e le competenze nevralgiche della Catalogna, dai suoi dipartimenti ai ministeri di Madrid. Un passo delicato, ma importante sarà decidere il passaggio del controllo territoriale dai Mossos d'Esquadra, con il direttore Pere Soler destituito, alla Policia Nacional, i cui 15mila agenti da un mese attendono nelle caserme e nelle navi davanti alle coste catalane.

Provato e felice, dopo la votazione Rajoy si è rivolto all'intero Paese che dal 1° ottobre guarda attonito, anche con un filo di rabbia e timore: «Chiedo a tutti gli spagnoli tranquillità. Vogliamo ridare credibilità e legalità ai catalani». Gli ha fatto eco Pedro Sánchez, leader dei socialisti alleati di governo, fino a ieri titubanti nel dispiegare il 155, assieme a Unidos Podemos. «Abbiamo tentato altre soluzioni, ma non sono servite a nulla.

La Generalitat ha respinto ogni nostro dialogo e siamo stati costretti a compiere questa scelta dolorosa per ridare un senso alla nostra democrazia».

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