Politica

Il grande flop del Jobs Act: più licenziati che assunti

I dati diffusi dal governo certificano che la riforma del lavoro è un fiasco. Mancato l'obiettivo flessibilità

Antonio Signorini

Roma Un'ammissione involontaria di come il Jobs Act non abbia funzionato, proveniente dallo stesso dicastero che lo ha varato. La dimostrazione, cifre alla mano, di come l'ultima riforma del lavoro abbia incoraggiato le aziende ad espellere i lavoratori e, contemporaneamente, abbia spinto questi ultimi ad incollarsi al posto, magari rifiutando nuove opportunità. In sintesi, di come la legge fiore all'occhiello dell'esecutivo Renzi abbia irrigidito il mercato del lavoro, esattamente il contrario di quello che servirebbe al Paese.

Il dicastero del Lavoro guidato fa Giuliano Poletti ieri ha diffuso i dati del «Sistema delle comunicazioni obbligatorie». Aggiornamento periodico dal quale è emerso, tra le altre cose, un aumento dei licenziamenti del 7,4%. In generale sono diminuite le cessazioni di lavoro, ma solo perché sono diminuite drasticamente le dimissioni dei lavoratori (meno 23,9 per cento). Tradotto, chi può, tra gli imprenditori, licenzia. Chi invece tra i dipendenti se lo può permettere, si tiene stretto il vecchio posto di lavoro. «Aumentano i licenziamenti, Jobs Act dei miei stivali», ha commentato il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta. «Chi cambia perde», ha twittato il giuslavorista Michele Tiraboschi.

In sostanza, i lavoratori non cambiano perché dovrebbero ripartire da zero con una nuovo contratto che non prevede le tutele dell'articolo 18, modificato dalla riforma del lavoro del governo Renzi. Seguendo lo stesso filo del ragionamento, si può dire che il Jobs Act abbia eliminato una tutela (il reintegro dei lavoratori licenziati ingiustamente), mancando l'obiettivo di rendere il mercato più flessibile.

I dati diffusi ieri confermano inoltre una tendenza che smonta un altro obiettivo del governo, quello di favorire l'occupazione stabile. Sempre nel secondo trimestre 2016, i contratti avviati a tempo indeterminato sono calati di circa 163 mila unità, il 29,4% in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. È finito l'effetto delle riduzioni dei contributi per chi assume in modo stabile. Misura che non sarà rinnovata dalla prossima legge di Stabilità.

Diminuiscono anche i contratti di collaborazione (-25,4%) e le assunzioni a tempo determinato (-8,7%), in misura maggiore per la componente femminile (-15,2%). Unico dato positivo, l'aumento dei contratti di apprendistato, pari al 26,2%, che erano stati penalizzati dalla precedente riforma del lavoro del governo Monti. Le due riforme, quella firmata dal ministro Elsa Fornero e quella di Renzi hanno in comune il fatto di avere mancato l'obiettivo per il quale erano nate.

Quella del 2012, partita come una liberalizzazione (c'era una diminuzione delle tutele), finì, anche grazie a una efficace pressione da parte dei sindacati, per imbrigliare i contratti, scoraggiando l'adozione di quelli a termine. La Fornero si difese sostenendo che l'obiettivo non era quello di fare crescere l'occupazione, ma di scoraggiare l'abuso di forme flessibili. Quella di Renzi è nata sotto auspici migliori, ma ha avuto effetti simili.

I dati ieri sono stati cavalcati dal Movimento 5 stelle, che sui social network hanno lanciato l'hashtag #Renzifail. Etichetta efficace. Peccato che il movimento di Grillo sia per un ulteriore irrigidimento del mercato del lavoro.

Ricetta che, una volta applicata, avrebbe effetti peggiori delle ultime due riforme.

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