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Graviano, stragista che non si è mai pentito

Il boss che tira in ballo l'ex premier è il mandante dell'omicidio Puglisi

Graviano, stragista che non si è mai pentito

«Sono nell'area riservata, isolato da tutti», racconta: «ho le telecamere ventiquattr'ore al giorno, e nel bagno di un metro quadro ne ho due». Giuseppe Graviano ha compiuto i 54 anni alla fine di settembre: ed è in galera dal gennaio del '94, dal giorno in cui i carabinieri lo catturarono in un ristorante milanese. Da quel giorno, intorno a Graviano, sepolto al «41bis», hanno ronzato in tanti, con lo scopo di farlo pentire, fargli saltare il fosso, nella speranza di farlo diventare il «tassello mancante» alle indagini sulle stragi. Niente da fare. A volte durante l'ora d'aria si lascia andare a qualche chiacchiera, a volte manda messaggi. Ma tutte le volte che gli chiedono di aprirsi davanti a un verbale la risposta è sempre la stessa: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».

Eppure prima che Salvatore Cancemi, nel maggio 1994, lo indicasse come l'organizzatore per conto di Totò Riina della strage di via D'Amelio, di Giuseppe Graviano e di suo fratello maggiore, Filippo, le cronache antimafia si erano occupate di rado. L'unica impresa di rilievo attribuita ai due fratelli, in quanto padrini del quartiere di Brancaccio, era stato l'assassinio di don Pino Puglisi, eseguito materialmente da quel Gaspare Spatuzza che poi si sarebbe (lui sì) pentito e lo avrebbe accusato. È per l'assassinio del parroco antimafia che Giuseppe e Filippo vengono arrestati a Milano. Ma nel Gotha di Cosa Nostra, mediaticamente parlando, i Graviano brothers ci entrano quattro mesi dopo, grazie alle accuse di Totò Cancemi. Poco dopo gli piomberà addosso l'accusa di esser estati i registi del passaggio più imperscrutabile della strategia mafiosa, gli attentati ai musei del 1993.

Da allora, si è cercata invano una risposta alla domanda: chi sono davvero i fratelli Graviano? L'unica risposta certa è che si tratta di mafiosi anomali, il cui unico pensiero - prima e dopo l'arresto - non sembra essere la prosecuzione del potere della loro famiglia, ma all'opposto farla sparire, strappare i figli e i nipoti al destino di continuatori del clan. Per questo prima di essere arrestati investono un miliardo di lire per portare le famiglie lontane dalla Sicilia, comprando una villa in Costa Azzurra. «Questi bambini non devono crescere a Palermo, perché a Palermo fanno la fine che ho fatto io», scriverà Giuseppe alla sorella. E nella villa in Costa Azzurra avverrà - ed è il dettaglio più incredibile - il battesimo dei figli di Giuseppe e di Filippo, concepiti dalle madri quando i padri erano già in carcere, grazie al liquido prelevato e conservato tempo prima. Vengono battezzati entrambi Michele.

In carcere, Giuseppe Graviano conferma la sua diversità. Mentre gli altri boss sepolti in massima sicurezza si consumano nei riti del carcere, o al massimo studiano giurisprudenza, lui si iscrive alla facoltà di biologia molecolare. E nella sua cella, come unico decoro alle pareti, ha le cartoline che riproducono Kandinski e Klimt, deturpate dai visti della censura. Intanto gli piombano addosso gli ergastoli, uno dopo l'altro. Lui un po' tace, un po' brontola, un po' manda segnali.

Ma, chiunque sia davvero, Giuseppe Graviano è il primo a sapere che il suo destino è quello riassunto nel foglio matricolare: «fine pena mai».

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