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Gridano contro il bavaglio, mai sugli indagati massacrati

La norma che vieta la diffusione di atti giudiziari arriva al culmine della degenerazione di inchieste a senso unico. Ma non è la soluzione

Gridano contro il bavaglio, mai sugli indagati massacrati

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La reazione comica della Federazione nazionale della stampa, ovvero il sindacato dei giornalisti, che tira in ballo nientemeno che i desaparecidos, non è un buon motivo per riabilitare la zampata che a voto segreto il Parlamento (e mai sapremo con quanti voti della maggioranza e quanti dell'opposizione) ha rifilato l'altro ieri al diritto di cronaca. L'emendamento primo firmatario il deputato di Azione Enrico Costa, tecnicamente in quota alle minoranze ma di fatto sui temi della giustizia un falco filogovernativo, ispiratore di alcune uscite del ministro della Difesa Guido Crosetto impedisce la pubblicazione «per intero o per estratto» delle ordinanze di custodia emesse a carico di qualsivoglia indagato. Qualsivoglia: e quindi vale per tutti, pedofili e terroristi e Turetta compresi. Ma è chiaro che a stare a cuore al Parlamento è la privacy di una categoria particolare di potenziali indagati, ovvero politici, amministratori pubblici, big dell'economia, insomma tutti coloro che potrebbero rientrare nella categoria degli indagati eccellenti o semieccellenti.

A sollevare polemiche e proteste in questi anni non sono state infatti le incursioni a volte feroci dei media nella vita di gente qualunque, trasformata a colpa di verbali in una massa di presunti colpevoli, sezionata in tutte le sue mezze frasi intercettate, nei suoi rapporti privati. Lì si è lasciato fare senza menare scandalo. A indignare, e a creare le condizioni per il colpo di mano dell'altroieri, sono state solo le lenzuolate di atti giudiziari che andavano a colpire in direzioni precise.

Intendiamoci: su questo versante se ne sono viste di tutti i colori. Inchieste con obiettivi politici sono state raccontate sui media con obiettivi altrettanto politici, in una alleanza di fatto tra settori della magistratura e della stampa animati dalla caccia al nemico comune. Le ordinanze di custodia, quelle che ora il Senato (se confermasse il voto della Camera) renderebbe segrete quasi per intero sono state la benzina per i roghi pubblici del nemico di turno. Per anni, all'interno delle ordinanze sono state disseminate intercettazioni ritagliate su misura per indignare il pubblico; dettagli pruriginosi sono stati inseriti con l'intento deliberato di acchiappare i clic morbosi. Ma a questa degenerazione, che era sotto gli occhi di tutti, ha messo argine la riforma dell'allora ministra Marta Cartabia, che ha dettato regole precise sia sulla modalità di stesura delle ordinanze, sia sui criteri di loro divulgazione. Nel bilancio (non troppo confortante) delle tante innovazioni introdotte dalla professoressa Cartabia nel suo breve periodo da Guardasigilli, questa è stata tra le poche con risultati concreti. Abusi continuano ad esserci qua e là, ma complessivamente l'utilizzo delle ordinanze come buco della serratura per spiare la riservatezza degli indagati si è, in questi anni, fortemente ridimensionato. La situazione attuale non sembra giustificare in nulla un provvedimento emergenziale come quello proposto vittoriosamente da Costa, se il problema è tutelare la privacy. Se invece si vuole tutelare di più l'efficacia delle indagini, lo strumento corretto è il segreto istruttorio (di cui, per sua definizione, l'ordinanza di custodia non fa parte). La sua violazione è già oggi un reato, e lo è la pubblicazione di atti segreti; se si vuole renderla più difficile, la strada è inasprire le sanzioni oggi poco più che simboliche - a carico del giornalista che la commette.

Proibire invece la pubblicazione delle ordinanze di custodia non è solo liberticida e probabilmente incostituzionale: è anche dannoso, perché impedisce alla opinione pubblica di farsi una sua opinione autonoma sulla fondatezza dei motivi che hanno portato un amministratore pubblico a sparire improvvisamente dalla circolazione, finendo in galera o ai domiciliari. Certo, per fare questo serve un ruolo critico della stampa, serve una cronaca giudiziaria non allineata alle Procure che le passano quotidianamente il pane. Ma allora è proprio questo il nemico vero, l'asse da spezzare, a partire dal partner pubblico di questa insana alleanza, ovvero la magistratura. Proibire la pubblicazione degli atti, e lasciare intatto il patto tra certa cronaca giudiziaria e certa magistratura, rischia invece di penalizzare chi nelle Procure si muove senza la benedizione dell'Associazione nazionale magistrati. Ai reporter di fiducia le notizie verranno comunque passate, e loro troveranno il modo di raccontarle senza sanzioni. A rimetterci sarebbe la possibilità di una cronaca spassionata, capace di andare oltre i brogliacci «taglia e cuci» dei pm.

E insieme alla cronaca, alla fine, ci rimetterebbero anche gli indagati.

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