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Il grido del partito del Nord "Feriti dalla farsa di Conte"

I governatori: «Non accetteremo dei pannicelli caldi» Industriali esasperati minacciano: pronti alla piazza

Il grido del partito del Nord "Feriti dalla farsa di Conte"

Con le grandi infrastrutture bloccate dai veti grillini, l'autonomia delle regioni motore del Pil arenata nei giochi di prestigio di Conte e Di Maio, il miraggio di una flat tax sempre più improbabile, il sussidio di cittadinanza che incentiva il rifiuto dei contratti di lavoro, l'aumento delle imposte locali e lo spettro della chiusura dell'Ilva, la sensazione che il governo marci in direzione opposta al mondo produttivo è sempre più forte tra gli imprenditori del nord. «Ricevo dai colleghi quotidianamente fax, sms, mail, telefonate che dichiarano profonda preoccupazione per il sentimento anti-impresa del governo - ha raccontato Luciano Vescovi, presidente degli industriali di Vicenza -. Non mi sorprenderei davvero se fossimo costretti ad andare in piazza, ma non saremmo soli poiché sono persuaso avremmo accanto i nostri dipendenti». Se il lamento degli industriali è un coro pressoché unanime di sfiducia verso il governo, non è che le associazioni delle imprese più piccole siano più ottimiste sul futuro, a testimonianza che il feeling tra il «partito del nord» e i gialloverdi - se mai c'è stato - è ormai in esaurimento. Per averne ulteriore conferma basta leggere i bollettini della Cgia di Mestre, associazione che riunisce artigiani e piccole aziende e che ogni settimana sforna un'analisi sulla situazione economica in cui si trovano ad operare i piccoli imprenditori del nord-est. Sempre più difficoltosa, tra peso della burocrazia che cresce e pressione fiscale reale che raggiunge sempre nuovi record (48% stima la Cgia).

Tutto disegna un quadro critico per il consenso della maggioranza nelle regioni dove si concentra la maggioranza del Pil italiano, cioè appunto al nord. Anche per la Lega, che finora non ha pagato elettoralmente nelle roccaforti chiave del Settentrione i flop rimediati al governo, ma che deve fare i conti con un forte malessere interno rappresentato, in modo sempre più diretto, dai tre governatori leghisti Fontana (Lombardia), Zaia (Veneto) e Fedriga (Friuli Venezia Giulia). Soprattutto dai governatori lombardo e veneto, che hanno messo la faccia sulla riforma autonomistica diventata ormai una barzelletta fatta di continui stop, rinvii e annunci di stravolgimenti alla bozza già concordata.

Ultimo, quello del premier Conte («I governatori non avranno tutto quello che chiedono, il modello della scuola non può essere frammentato»), a cui i leghisti Fontana e Zaia hanno risposto per le rime con una lettera a doppia firma: «Abbiamo lavorato migliaia di ore, abbiamo organizzato referendum popolari, abbiamo discusso su ogni tavolo ministeriale e tecnico, non ci stiamo ad essere presi in giro con una discussione che sembra il gioco dell'oca per cui si torna sempre alla casella di partenza» scrivono i due governatori. Aggiungendo poi di sentirsi «profondamente feriti» dalle continue retromarce del premier, anche rispetto a quanto promesso nei colloqui diretti con entrambi «durante i quali - ricorderà benissimo - abbiamo più volte sottolineato che non si chiedono più risorse, ma semplicemente la possibilità di spendere in autonomia quelle che ci sono già assegnate». Fontana e Zaia assicurano di non essere disposti ad accettare al posto della vera autonomia «un pannicello caldo che produrrebbe ulteriori guai», che però è proprio la strada perseguita dal M5s, finora con l'assenso di Salvini che non ha voglia di rompere il patto di governo.

Il prezzo, al nord, potrebbe essere molto alto.

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