Politica

Guerra tra giudici per il diritto alla fine

La Procura aveva chiesto l'archiviazione per il radicale Cappato, ma il gip la respinge

Luca Fazzo

Milano Chiunque «agevola in qualunque modo» un suicidio è punito con il carcere da cinque a dodici anni. Così, testualmente, recita l'articolo 580 del codice penale. E il codice non fa distinzioni: anche se a morire è un invalido totale e senza speranze come era il disc jockey Fabiano Antonioli. Così la decisione della Procura di Milano di non chiedere il processo per Marco Cappato, il radicale che aveva aiutato Dj Fabo a morire, è andata a sbattere contro le perplessità del giudice preliminare chiamato a vagliare la richiesta di archiviazione. Niente proscioglimento, per ora. Il prossimo 6 luglio, il gip Luigi Gargiulo sentirà le ragioni della Procura e dei difensori di Cappato, poi deciderà. E diventa verosimile che alla fine a decidere debba essere la Corte Costituzionale.

Le motivazioni con cui i pm Tiziana Siciliano e Sara Arduini avevano chiesto di archiviare l'inchiesta - scaturita dall'autodenuncia di Cappato - erano umanitariamente e eticamente forti: lo stato irreversibile di Antonioli, le sue sofferenze implacabili, la sua ostinata volontà di morire il prima possibile. Ma in Italia non esiste una legge sul fine vita che renda possibile il suicidio assistito. Invece i pm, partendo dall'assunto del «diritto al suicidio» di Antonioli, approdavano a considerare non punibile il comportamento di Cappato: in parte riducendo il suo ruolo a quello di «mero osservatore» della morte del dj (cui invece diede, per sua stessa ammissione, un contributo decisivo); in parte sostenendo che accordi internazionali, più forti della legge italiana, rendevano prevalente in questi casi il diritto alla dignità su quello alla vita, e di fatto depenalizzavano l'aiuto al suicidio.

Che si trattasse di una invasione di campo era forse chiaro alle stesse pm, che infatti nelle motivazioni della richiesta invocavano una nuova legge adeguata a questi casi. Ora la decisione del gip apre una nuova puntata della drammatica vicenda. All'udienza del 6 luglio Gargiulo potrebbe alla fine convincersi delle ragioni della Procura e archiviare definitivamente l'inchiesta, ma potrebbe anche ordinare l'imputazione coatta di Cappato e poi rinviarlo a giudizio: e quel punto l'esponente radicale punterebbe a fare del caso di Dj Fabo un processo-simbolo.

Ma Gargiulo ha a disposizione anche un'altra via: accogliere la tesi numero due della Procura e dichiarare non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo che punisce l'aiuto al suicidio qualunque siano le circostanze in cui esso avviene: «al fine - scrivono le pm - di verificarne la compatibilità con i principi fondamentali di dignità della persona umana e di libertà dell'individuo garantiti tanto dalla Costituzione italiana quanto dalla convenzione europea dei diritti dell'uomo».

A quel punto dovrebbe essere la Consulta a sciogliere il nodo: a meno che nel frattempo il Parlamento non si smuova.

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