Cronache

A Herat, Tiziano in una bara e i compagni uniti

La giornalista inviata di guerra racconta il giorno dell'addio al caporalmaggiore Chierotti

A Herat, Tiziano in una bara e i compagni uniti

Suono di tromba. Silenzio. Il rumore del C130-J che atterra all'aeroporto di Herat è l'unico suono percepibile. Un boato che squarcia la notte, mentre in linea volo restano immobili le penne degli alpini. Ogni tanto si sente qualcuno singhiozzare. Ma c'è un'atmosfera irreale tutto attorno. È come quando sta per scoppiare un temporale, che inizia a soffiare il vento, poi il frastuono e l'acqua che scroscia. Si apre il portellone e, a spalla, sei militari portano la bara di legno scuro. È strano come funzioni questo mestiere. Di una persona non sai niente finché non diventa fondamentale per la cronaca di giornata. E, allora, dopo dieci minuti di quella persona sai tutto. Come si chiamano i suoi genitori quanti fratelli ha, che scuole ha frequentato, ciò che dicono di lui gli amici, i vicini di casa, i suoi sogni, le aspirazioni. E quando questa persona muore è ancora peggio. C'è una frase che odio profondamente, ma che ricorre in ogni articolo di cronaca nera: «Era un bravo ragazzo». Possono anche dire più genericamente «era una brava persona», ma il senso non cambia. Ovvio che se ne parli bene, di un morto non si può parlar male. Soprattutto se ha lasciato questa terra in certe circostanze. E davanti a quei capi chini sul selciato della base della colazione internazionale in Afghanistan ebbi l'impressione che di «era un bravo ragazzo» il giorno successivo ne avrei sentiti moltissimi. Negli occhi dei commilitoni di un soldato che muore c'è qualcosa difficile da spiegare. La profondità che vi si legge è particolare. È il senso di appartenenza a un gruppo, a uno stesso lavoro, semplicemente a uno stesso destino. Qualcuno mi ha detto: «Al posto di Tiziano avrei potuto esserci io». Non ricordo il nome del giovane che mi raccontò di essere stato a pochi passi dal caporale Chierotti, quando gli afghani lo colpirono, ma rammento bene il suo volto ancora terrorizzato mentre raccontava dell'agguato. Quando Tiziano morì ero l'unica giornalista italiana ospite del contingente italiano. Lo seppi poco dopo il decesso e riuscii ad avvertire il mio giornale prima di tutti gli altri. Di solito quando sei sulla notizia provi uno strano senso di piacere e adrenalina. Lo scoop, per noi giornalisti, è ciò di cui siamo in cerca continuamente. Ma in quell'occasione si fece strada dentro me la consapevolezza che certe storie vorresti non scriverle mai. La bara contenente il corpo ormai senza vita del 24enne sfilò davanti alle centinaia di alpini fermi a bordo pista e, quindi, fu caricata sul pianale di un camion che la portò verso la chiesetta di piazza Italia. Erano le due di notte e andai a dormire conscia che dentro di me qualcosa era cambiato. Facevo parte anche io di quella storia ed ero certa che un giorno l'avrei raccontata. Il pomeriggio successivo fu celebrata una prima cerimonia funebre. Il cappellano militare espresse parole di cordoglio all'intero contingente per la grave perdita. Su quella bara di fronte a cui spiccava la foto di Tiziano, era poggiato il Tricolore su cui si notava il cappello da alpino. Scattai foto senza tregua. Il mio articolo lo avevo scritto il giorno precedente e sapevo benissimo che quelle immagini non sarebbero mai state usate dal mio giornale, ma volli documentare ugualmente il momento. La bara, dopo circa mezz'ora, fu trasportata ancora a spalla fuori dalla chiesa, quindi caricata sul solito camion e portata di nuovo in linea volo, da dove un altro aereo militare sarebbe partito per il rientro in Italia. Sapevo che quella volta non ce l'avrei fatta, come molte altre, ad essere a Ciampino, come diciamo noi giornalisti inviati in aree di crisi «a prendere il caduto». Avevo vissuto la storia «da questa parte», da quella peggiore della barricata, da quella più straziante e immediata. Dalla parte in cui percepisci ancora l'odore di esplosivo, di crudezza, di disperazione. Sapevo che in Italia ci sarebbe stata una famiglia straziata dal dolore e i fotografi pronti a immortalare il momento. Sapevo anche che Tiziano sarebbe stato accolto tra tutti gli onori, quale caduto vittima del terrorismo internazionale. Ma ero anche conscia del fatto che da quel momento avrei vissuto l'Afghanistan e la missione come un qualcosa che mi apparteneva davvero. Vi sarei tornata tante altre volte, negli anni a venire, ma fu quello il momento in cui sentii il vero senso di appartenenza e la vocazione per la vita militare. Da quel giorno sono passati quasi quattro anni. Ho conosciuto il papà di Tiziano, Piero, solo per telefono, ma mesi fa gli dissi che avevo le foto della cerimonia funebre del figlio. Con grande umiltà me le chiese. Avevo deciso di inviargliele via mail, quando la vita mi ha sorpresa con una nuova guerra da combattere e, presa da mille pensieri, me ne sono dimenticata. Solo oggi le ho ritrovate per caso e ho deciso di onorare il mio impegno. «Signor Chierotti, le ho appena inviato le foto via mail.

Mi scusi per il ritardo, ma da sei mesi combatto contro il cancro e solo oggi, oggi che ho avuto la notizia di averlo sconfitto, sono in grado di spedirgliele».

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