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I finti "paletti" di Zingaretti: accoglienza e patrimoniale

Il segretario del Pd vira deciso verso l'intesa con M5s E fa saltare addirittura il taglio dei parlamentari

I finti "paletti" di Zingaretti: accoglienza e patrimoniale

Roma, interno giorno: la Direzione del Pd è riunita al Nazareno. Il presidente Paolo Gentiloni ha appena concluso la lettura dell'ordine del giorno che apre al governo grillodem, e che di lì a poco verrà approvato all'unanimità. E dalla platea si alza all'improvviso una voce metallica e un po' ultraterrena: «Questo - scandisce - è il risultato migliore che ho trovato».

Attimo di smarrimento, poi tutti ridono: a un delegato, che stava evidentemente smanettando sull'IPhone intento in qualche ricerca Google, è partito per sbaglio l'assistente vocale. «È Siri, non un segno del destino», sdrammatizza qualcuno.

Fatto sta che, come dirà più tardi il segretario Nicola Zingaretti, «oggi si è chiusa una fase politica, e siamo approdati insieme a una proposta condivisa, quella di un governo di legislatura». Alla fine, spiega chi si ha seguito passo passo la lunga mediazione che ha portato il segretario ad accettare il tentativo di un governo che allontana il voto anticipato, «Nicola si è convinto». Anche perché era difficile fare altrimenti, visto il pressing di tutti o quasi i maggiorenti, e dei «territori» che contano per il Pd, a cominciare dall'Emilia Romagna, dove ieri il governatore Stefano Bonaccini esultava: «Al Paese serve un governo che governi, non crisi al buio e campagne elettorali permanenti. Bene il Pd finalmente unito, come chiede la nostra gente». E per il leader dem presentarsi alle consultazioni di ieri al Colle con un partito diviso su due linee opposte sarebbe stato insostenibile.

Fino a martedì, mentre la sceneggiata del Senato tra Conte e Salvini era ancora in corso, Zingaretti ha provato a resistere in tutti i modi. Lui, Salvini e Di Maio erano i tre apici del triangolo pro-elezioni: non a caso gli zingarettiani, con la fattiva collaborazione del vicepremier grillino, si erano adoperati nei corridoi del Senato come con i giornalisti per spargere il panico tra i poveri peones a Cinque Stelle: «Attenti, che Matteo Renzi vi vuol fregare: prima fa partire il governo, e poi stacca la spina quando gli pare e vi lascia in mezzo ad una strada». I grillini smarriti, che fino a poco prima si erano sdilinquiti in lodi per l'ex premier dem («Bel discorso, davvero interessante», assentiva grave la ministra Grillo), fermavano nei meandri di Palazzo Madama i senatori Pd per interrogarli ansiosamente: «È che Renzi vuol mandarci a sbattere?».

Nel Pd, intanto, si erano messi in moto i mediatori: Franceschini, Guerini, Lotti. Una parte dei renziani chiedeva una decisione netta: sì al governo, senza condizioni proibitive messe lì allo scopo di rendere più arduo l'accordo (tipo niente Conte, niente Gigino, niente taglio dei parlamentari eccetera). Altrimenti, avvertivano, siamo pronti ad astenerci. Gli zingarettiani (che in Direzione contano una nutrita serie di ex o aspiranti parlamentari) puntavano invece ad alzare più paletti possibile. Alla fine si è arrivati al compromesso che metteva d'accordo tutti, e che Zingaretti ha fatto suo: «Appartenenza leale all'Ue; pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa (niente referendum propositivi, ndr, e per il taglio dei parlamentari è tutta da vedere); sviluppo ma sostenibilità ambientale; cambio nella gestione di flussi migratori; svolta delle ricette economiche e sociale, in chiave redistributiva». Resta la richiesta di «discontinuità» (no al ricicciare di Conte o Di Maio), ma si fa più morbido. A protestare, ma flebilmente, resta Carlo Calenda: «La linea è cambiata.

Il mio pensiero è noto, ma non parlerò per non pregiudicare l'unità del Pd».

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