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Ruby, i giudici hanno demolito il teorema

Processo Ruby, cancellata la condanna di Berlusconi a 7 anni: inesistenti le accuse di concussione e prostituzione minorile

I giudici della corte d'Appello di Milano
I giudici della corte d'Appello di Milano

Milano - Che stia accadendo l'impossibile, i legali di Berlusconi lo capiscono già quando il giudice Enrico Tranfa comincia quasi sottovoce a leggere: «in riforma della sentenza...», «visto l'articolo 530 del codice penale...». É l'articolo che regola le assoluzioni. I due avvocati si irrigidiscono, trattengono il fiato. Possibile? Sì, possibile: «...la Corte d'appello di Milano assolve l'imputato...». Strada facendo, la voce del giudice sale e scandisce le parole. Cinquantacinque secondi in tutto, per ribaltare la storia che quattro anni fa ha investito Silvio Berlusconi, lo ha trascinato sul banco degli imputati e un anno fa portò alla sua condanna a sette anni di carcere per concussione e utilizzo della prostituzione minorile. Berlusconi, dice la Corte d'appello, è innocente.

Novanta giorni per stendere le motivazioni della sentenza, ma il testo letto da Tranfa nei cinquantacinque secondi è sufficiente a delineare con chiarezza come la Corte d'appello sia arrivata a demolire - perché di questo oggettivamente si tratta - non solo il lavoro della procura della Repubblica ma anche dei giudici di primo grado, quelli che avevano firmato la condanna a sette anni. A venire azzerato è soprattutto il primo capo d'accusa, il più grave: la concussione ai danni del vicequestore Piero Ostuni, che Berlusconi avrebbe costretto con una telefonata a rilasciare Ruby, la notte del 27 maggio 2010. Era stata qualificata come concussione per costrizione, e punita dalla sentenza di primo grado con sei anni di carcere. La Corte d'appello invece assolve Berlusconi «perché il fatto non sussiste». Non esiste la concussione. La telefonata avvenne, ma non aveva nessuna delle caratteristiche di minaccia né implicita né esplicita che l'avrebbero fatta diventare un reato. Al vicequestore Ostuni non venne prospettato alcun danno «grave e irreparabile» se non avesse rilasciato Ruby. È la linea che uno dei legali di Berlusconi, Franco Coppi, aveva indicato con chiarezza alla Corte: «Il risultato fu al massimo una accelerazione dei tempi». Solo un «gravissimo travisamento dei fatti», avevano sostenuto i legali del Cavaliere, aveva permesso alla sentenza di primo grado di vedere un ordine tassativo nella telefonata del premier al poliziotto. La Corte dà loro ragione.

Appena più complessa la decisione sul secondo capo d'accusa, i tête à tête a pagamento che Berlusconi avrebbe avuto con Ruby. Anche da questa accusa i difensori avevano chiesto l'assoluzione «perché il fatto non sussiste», affermando che non c'era alcuna prova di contatti ravvicinati nelle serate di Arcore tra il padrone di casa e la giovane ospite. Invece la Corte assolve l'imputato «perché il fatto non costituisce reato». Tradotto: i contatti ci furono, ma Berlusconi non sapeva che Ruby era minorenne. Quindi, per la legge, non c'è reato. È una conclusione che almeno in parte salva i risultati dell'indagine della Procura, perché dà atto che quelle di Arcore non erano solo «cene eleganti». Ma esclude l'esistenza del reato in base ad un elemento che era già noto da tempo, e sul quale già in primo grado avevano battagliato senza trovare ascolto i difensori dell'epoca, Niccolò Ghedini e Piero Longo. I giudici dell'anno scorso avevano scritto che Berlusconi sapeva sicuramente che Ruby era minorenne, perché lo sapeva Emilio Fede, che «visti i rapporti tra i due» lo aveva sicuramente avvisato. Una consecutio logica che viene rottamata dalla Corte d'appello. Dopodiché sarà interessante leggere come la Corte abbia ritenuto provati i rapporti intimi tra Ruby e il Cavaliere, visto che l'unico indizio in questo senso erano le intercettazioni di Ruby: le stesse in cui la ragazza diceva (in mezzo a una miriade di bubbole) che l'anfitrione aveva a un certo punto conosciuto la sua vera età, e che invece su questo punto non sono state considerate affidabili.

«Non abbiamo mai smesso di crederci perché crediamo nel diritto», dice l'avvocato Filippo Dinacci. La verità è che fino alle 12,59 di ieri non ci credeva nessuno.

Neanche Ruby che ieri ha detto: «Non ci speravo, sono felicissima non solo per Silvio ma anche per me».

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