Cronache

"I primi novant'anni con mio figlio Smaila"

Giuseppina Nacinovich ha vissuto la tragedia degli esuli istriani. E su Umberto: "É il mio orgoglio. Ma lo sognavo avvocato..."

"I primi novant'anni con mio figlio Smaila"

L'altro volto di Smaila. Non quello ridanciano da mattatore delle notti in Costa Smeralda e neppure quello dalla comicità irresistibile delle gag televisive. L'Umberto che incontriamo è tutto per sua mamma, la signora Giuseppina «Mary» Nacinovich che proprio oggi compie novant'anni. E a lei dedicherà stasera il suo consueto show musicale sul palcoscenico del Cost, gettonato ristorante della movida milanese. Ma l'altro volto di Smaila coincide a doppio filo con la storia di una donna fuori dal comune che ancora oggi, con giovanile lucidità, si batte per dare luce e giustizia a uno dei periodi più oscuri dell'Italia del Dopoguerra: la tragedia istriana. Quella delle foibe e delle migliaia di esuli che furono costretti a rinunciare a tutto fuorchè alla loro dignità di italiani. Il mattatore Umberto doveva ancora emettere il primo vagito quando la signora Giuseppina e il marito Guerrino abbandonarono Fiume, che fino agli anni dell'occupazione del '45 e prima dell'annessione alla Jugoslavia titina del '47 era stata una florida città cosmopolita, ricca di industrie e di un porto commerciale che contava più di quello di Trieste.

«Vivevamo in pace fieri di essere italiani, perché tale mi sono sempre considerata anche se il dialetto fiumano, che somiglia tanto al veneto, era di fatto la nostra seconda lingua», ricorda comodamente seduta accanto al figlio e al suo immancabile pianoforte. «E abbiamo continuato a vivere in pace anche durante il fascismo fino a quando, durante l'occupazione degli alleati, diventammo terra di nessuno. Ci sentivamo italiani a tutti gli effetti ma non sapevamo nulla sulla nostra sorte». L'annessione alla Jugoslavia fu l'inizio di un incubo per la famiglia Smaila che, come tante altre, si disgregò nella grande diaspora. «Ci portarono via tutto, casa e beni. Eppoi assistevamo alle ritorsioni da parte di quegli stessi slavi che, fino al giorno prima, attraversavano il confine per venderci i prodotti delle campagne. A pagare il prezzo più alto furono gli ex funzionari dello Stato. Ma il massacro delle foibe messo in atto dai partigiani titini colpiva indistintamente anche solo come rivalsa verso l'italianità». Una tragedia che non risparmiò neppure la famiglia Smaila. «Un nostro cugino, l'ex carabiniere Corrado Smaila, tornato in Istria dalla guerra fu un giorno convocato dalle autorità e sparì. Fu gettato in una foiba». Poi l'inevitabile esilio in Italia su uno dei treni che trasportavano migliaia di profughi istriani nel campo di raccolta di Lucca. «La cosa più amara fu vedere l'atteggiamento di disprezzo da parte di quei comunisti italiani che consideravano i profughi fascisti per il solo torto di aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito. Alla stazione di Bologna impedirono che venissero dati acqua e viveri ai nostri bambini».

Umberto ascolta serio i racconti della madre rigirando sulle labbra il sigaro spento. Quei ricordi devono aver segnato la sua infanzia anche quando la famiglia, ormai stabilitasi a Verona, decise anni dopo di tornare a trascorrere brevi periodi nella città natale «ormai completamente trasformata dal grigiore comunista». Ma di quegli anni, Umberto era già un adolescente pieno di energie, non mancano ricordi felici. «Ricordo che mi sentivo un po' come il figlio degli zii d'America - sorride - avevo i jeans e il mangiadischi con i 45 giri dei Beatles e ovviamente facevo un successone con le ragazze... Quando poi arrivavamo a Fiume pieni di pacchi di pasta e di caffè, i miei parenti ci facevano un festone; loro, poverini, dovevano alzarsi alle cinque di mattina per far la fila per il pane». Oggi Umberto Smaila e la signora Giuseppina «Mary» sono praticamente inseparabili, anche se lei continua a vivere a Verona.

«È il mio unico figlio e sono tanto orgogliosa di lui, anche se quando decise di lasciare giurisprudenza per dedicarsi allo spettacolo ci rimasi un po' male. Ma in fondo questa passione l'ha ereditata un po' anche da me e mio marito che, pur gestendo un'officina meccanica, aveva vinto a Roma un concorso canoro». La signora Giuseppina è sempre stata in prima fila fin da quando Umberto faceva le recite con la compagnia del liceo. «Poi arrivarono gli anni del Derby e dei Gatti che per me sono sempre stati dei secondi figli. Venivano a fare le prove a casa nostra fino a tardi, Umberto si metteva al pianoforte e metteva le battute in bocca a Jerry Calà, quando doveva rispondergli capitooo?...

».

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