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I sospetti dei democratici: Renzi vuole farsi cacciare

Ma l'ex premier è a un bivio: provare la scalata al Pd dopo le Regionali oppure strappare e correre da solo

I sospetti dei democratici: Renzi vuole farsi cacciare

«Fate la guerra al Matteo sbagliato». È ormai da mesi il tormentone di Matteo Renzi, che non perde occasione per accusare la nuova leadership del Pd di occuparsi più di polemizzare con lui e ostacolare le sue iniziative che di costruire una battaglia di opposizione contro l'attuale maggioranza grillo-leghista.

L'ultimo episodio, la guerra interna sulle due diverse petizioni anti Salvini (la prima annunciata da Renzi e poi bloccata, la seconda dal segretario Pd) ha regalato su un piatto d'argento al capo leghista l'occasione per irridere gli sconclusionati dem: «Pretendono di cacciarmi con le raccolte firme e litigano pure. Geniali, no?». Con Renzi che replica ricordandogli i «disastri» fatti dal governo di cui fa parte e che gli dà del «fannullone».

Ma è, appunto, solo l'ultimo di una lunga serie di incidenti che fanno sospettare a più d'uno degli zingarettiani che «Renzi stia preparando il terreno per la rottura, facendo però la parte del perseguitato che viene cacciato dalla nomenklatura». Una sorta di riedizione del famoso «che fai, mi cacci?» finiano, insomma: dalla rinuncia di Renzi ad intervenire nel dibattito in Senato sul Moscagate, fino alla rinuncia alla sua raccolta di firme, dopo che Zingaretti ha lanciato la petizione Pd. Del resto, l'opzione «scissione» è quella su cui una parte dei renziani da tempo insiste con il leader, con il quale si lamentano ad ogni occasione del trattamento loro riservato dal Nazareno. «Se potessero, quelli della Ditta ci appenderebbero per i piedi», dicono. Ogni volta, però, l'ex premier chiede loro di pazientare.

In verità, lo stesso Renzi non ha ancora deciso la quale sia la strategia migliore. Tutto dipende, ovviamente, dal contesto: finora, il «Matteo sbagliato» non ha mai creduto ai venti di rottura nella maggioranza, convinto che l'alleanza tra Lega e Cinque Stelle sia molto più strutturale di quel che appare, e che il patto di potere tra Salvini e Di Maio entrerà difficilmente in crisi. Al contrario di Zingaretti, che allo scoppiare del caso Moscopoli si era convinto che la caduta del governo fosse alle porte, e per questo ha bloccato la mozione di sfiducia a Salvini chiesta da Renzi e Maria Elena Boschi: «Altrimenti li ricompattiamo», fu l'altolà. Ovviamente si sono ricompattati lo stesso, ma Salvini si è salvato dalla prova.

Una eventuale scissione del Pd non può essere fatta nel vuoto: ci devono essere elezioni politiche alle porte, prima di arrivare allo scontro finale. Anche perché è quasi inevitabile che nelle prossime urne il Pd ottenga un risultato di qualche punto superiore al 2018, e che sorpassi i Cinque Stelle in caduta libera: un risultato che rischia di dare un colpo definitivo alla leadership renziana. Ma c'è anche una seconda opzione, che secondo alcuni è quella preferita dall'ex segretario: la riconquista del partito. Prima delle elezioni politiche, tutt'ora incerte, ci saranno infatti una raffica di voti nelle regioni: entro fine anno andranno alle urne Calabria, Umbria ed Emilia Romagna, tutte e tre finora governate dal Pd. E tutte e tre ad alto rischio di ribaltone. Tre giorni fa Matteo Salvini ha lanciato la candidatura per l'Emilia Romagna di Lucia Borgonzoni, una delle sue «amazzoni», oggi senatrice e sottosegretaria: una scelta che testimonia che la conquista di quel simbolico baluardo della sinistra, finora inviolato, è in cima alla sua lista. Se Zingaretti perdesse, oltre e Umbria e Calabria, anche l'Emilia, il maremoto interno al Pd sarebbe inevitabile.

E Renzi potrebbe tentare la riscossa.

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