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"I suoi scheletri? Non ci sono Amici, ma io gli davo del lei"

L'ex ministro: «Tra noi affetto sincero. La sua visione internazionale servirebbe oggi contro i nazionalismi»

"I suoi scheletri? Non ci sono Amici, ma io gli davo del lei"

Cominciamo dalla fine, onorevole Paolo Cirino Pomicino. Dov'è?

«Dov'è cosa?»

Il famoso archivio segreto, l'armadio con gli scheletri.

«Nessun armadio, niente scheletri. C'è un archivio: pagine importanti per lo storico. Che esistano inconfessabili segreti è una leggenda metropolitana. Lui la lasciava correre, alimentando il mistero perché pensava fosse inutile smentire e che, anzi, aiutasse politicamente».

L'era di Giulio Andreotti. Epopea, se vogliamo: 27 volte ministro, 7 presidente del Consiglio, 27 volte inquisito, 7 papi conosciuti, che lo stimavano. Lo incontrò la prima volta

« da consigliere comunale. Lui già ministro del Bilancio, motivo per il quale gli ho sempre dato del lei. Con Fanfani e Moro ci davamo del tu».

Significativo. Amici?

«Nel senso politico. Mai partecipato ai suoi tavoli di gin-rummy. Con mia figlia Ilaria, invece, s'era creato un rapporto speciale, tanto che lei si confidava più con Giulio che con me».

Per lei, uno zio?

«Affetto sincero. Ma anche un rapporto dialettico, vivace, mai subalterno».

La volta che lo ha fatto più arrabbiare?

«Ministro del Bilancio e 113 dei problemi del governo da lui presieduto, gli dissi che stava commettendo una sciocchezza. Mi disse: Quindi mi stai dicendo che sono uno stronzo?».

E lei rispose?

«Così: Non l'ho detto. Chiede di fare una sciocchezza: se vuole, la facciamo».

Come nasce la caricatura di una corrente andreottiana tutta affari e feste, quella rappresentata nel Divo di Sorrentino?

«Non so. Se c'è qualcuno che è mai venuto a una festa organizzata da me, ricorrenze familiari escluse, si faccia avanti. Al film mi sono annoiato; Andreotti lo aveva visto prima di me, mi aveva avvisato che quella di Sorrentino era solo una mascalzonata».

Corrente influente col 5%.

«Nel '76 la corrente non esisteva Poi arrivammo noi giovani: era nostra, la corrente. Lui non ne ha mai fatto parte. Pensi che nel nostro massimo fulgore, facemmo un importante convegno a Milano, cui intervenne per la prima volta un presidente di Confindustria, Pininfarina, e tanti Vip Sa chi non si presentò?».

Posso immaginarlo. Grande sciccheria disertare la riunione della propria corrente Siete caratteri diversi.

«Ci ritrovammo ricoverati assieme, nel '79: io al mio primo infarto, lui per calcoli alla colicisti. Mi inviò un biglietto: Caro Paolo, mi spiace ma siamo afflitti da malattie legate ai rispettivi temperamenti: tu impulsivo, colpito al cuore; io che ingoio bile».

Lei poi rischiava grosso, non essendo mai presente al suo riti religioso mattutino.

«E come avrei potuto? Alle 6 e trenta! Una volta dissi che non sarei entrato nel suo governo. Perché?, chiese. Ha indetto la prima riunione del Cdm di venerdì alle 8. A fatica accettò di ritardarla di un'ora».

Una vita che fu un romanzo politico cominciato nel '47, al seguito di De Gasperi: quale eredità ha lasciato?

«Una visione internazionale della politica, sulla quale molto riflettere in una stagione dei risorti nazionalismi, dove si dice prima gli Usa, prima gli italiani La consapevolezza, in uomini come Andreotti, che non si può reggere un Paese se non all'interno di un quadro di alleanze che garantiscano sia la democrazia sia uno sviluppo equilibrato con moderate diseguaglianze».

Il paradosso è che il mondo così globalizzato produca il risorgere dei nazionalismi.

«Esatto. La globalizzazione non può ormai essere eliminata, ma solo con una visione come quella di Andreotti potremmo chiederci come governarla».

Nemesi: proprio lui, il più fedele alleato atlantico, finì assai critico con gli Usa (che si vendicarono con Tangentopoli e il processo di Palermo, si disse).

«Mi diceva: Abbiamo sempre cercato la pace assieme agli americani, mai la pax americana. E poi: Siamo amici del popolo americano, dei suoi governanti, non dell'intelligence.

I presidenti passano, ma i servizi restano».

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