Politica

Gli imitatori della Boschi: dimissionari soltanto a parole

Padoan, Franceschini, Carbone e Fedeli: hanno tutti promesso che sarebbero andati a casa. Sono ancora lì

Gli imitatori della Boschi: dimissionari soltanto a parole

Si fa presto a dire «me ne vado», ma alla fine nel vecchio governo in pochi hanno seguito l'esempio di Matteo Renzi. Eppure, si sprecavano prima del referendum le promesse di lasciare il governo, lasciare il parlamento, lasciare la politica finanche. Tornare a casa, fare un altro lavoro.

Tutti pronti ad «assumersi la responsabilità» della probabile sconfitta, prima, tutti pronti a restare, magari promossi, dopo. Forse era una forma di minaccia, l'idea di prefigurare un cataclisma e spingere i cittadini in massa a confermare la riforma costituzionale. Non ha funzionato. Ma, salvo Renzi che proprio non poteva rimangiarsi la promessa, gli altri ora fanno finta di niente.

Maria Elena Boschi è quella che ha segnato la strada. Da ministra del governo Renzi e «madrina» proprio della riforma bocciata, aveva spiegato di giocarsi tutto sul Sì. Infatti, quando il No ha stravinto è entrata nel nuovo governo Gentiloni, nel ruolo chiave di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. «Anche io lascio se Renzi se ne va: ci assumiamo insieme la responsabilità. Abbiamo creduto e lavorato insieme ad uno stesso progetto politico», aveva detto su Rai3, a In mezz'ora di Lucia Annunziata. Ma era un'altra vita.

Una nuova ha iniziato Pier Carlo Padoan, rimanendo al timone del ministero dell'Economia nell'esecutivo appena varato. Dimenticando che, i primi di giugno, si era lasciato sfuggire a SkyTg24: «Osservo una cosa banale: se il presidente del Consiglio va a casa, tutto il governo va a casa». Da mesi si parlava di sue mire per una poltrona europea o para-europea, ma lui aveva precisato: «Il mio impegno futuro è tornare all'università».

Nell'ultimo week end di campagna elettorale, in un'intervista a L'Aria che tira, su La7, pure l'allora vicepresidente del Senato Valeria Fedeli aveva assicurato: «Io non sono attaccata alla poltrona». Dopo la nomina a ministro dell'Istruzione nel governo Gentiloni, il video è diventato virale in rete e i commenti sono più che salaci. D'altronde, la deputata Pd era stata chiara nel preannunciare il suo addio alla politica, in caso della vittoria del No, fustigando i cattivi costumi italiani: «Basta alibi, è giusto rimettere il mandato anche per i parlamentari. Quelli che pensano solo alla propria sedia non pensino di arrivare al 2018».

E poi c'è lui, il campione del «ciaone», il renziano che imperversa su Twitter, Ernesto Carbone. Alla domanda di Myrta Merlino a L'Aria che tira su La7, già a maggio aveva promesso: «Sì, lascio la politica. Non si tratta di personalizzare il referendum, si tratta di essere seri. Per vent'anni abbiamo sentito quelli che io avrei voluto..., e alla fine nessuno ha mai fatto nulla». Io non sono come gli altri, giurava Carbone, se non riesco a cambiare la Carta costituzionale, «è certo che vado a casa, perché vuol dire che ho fallito: grazie a Dio non campo di politica, nella vita ho un lavoro». Dieci giorni dopo l'esito del referendum, però, delle sue dimissioni da deputato non si parla affatto.

Perché avrebbe dovuto farlo, direte voi, visto che è in così buona compagnia? L'allora e oggi ministro ai Beni Culturali Dario Franceschini, a maggio in un'intervista a Repubblica, spiegò: «Non è una minaccia, non è una personalizzazione. A me sembra una con-sta-ta-zio-ne. Questo governo, ed è agli atti, nasce per fare le riforme. Se le riforme non si fanno chiude bottega il governo e chiude anche la legislatura, mi pare ovvio. Anche perché non stiamo scegliendo tra due riforme diverse, che è il tema più surreale usato da alcuni costituzionalisti. Stiamo scegliendo tra la riforma e niente». Per lui, quindi, la fine del governo Renzi doveva coincidere con la fine della legislatura.

Invece, è rimasto esattamente al suo posto, ma con Paolo Gentiloni.

Commenti