addio alla Regina

Inno e monete, il regno cambia "brand"

Il volto di Elisabetta compare ovunque. E "king" sostituirà "queen"

Inno e monete, il regno cambia "brand"

Il Regno Unito, anzi tutto il Commonwealth, non cambieranno solo il regnante, ma il loro stesso marchio. In queste ore febbrili dall'altra parte della Manica è in corso quello che la Bbc definisce «royal rebranding», ovvero la ridefinizione dell'identità della grande azienda UK. A parte la bandiera, la Union Jack, quasi tutti gli altri simboli della nazione saranno rivoluzionati dalla morte di Elisabetta II e dal passaggio dello scettro a Carlo III.

Pensiamo all'inno. Pochissimi britannici possono raccontare di aver intonato nella loro vita «God save the king», l'ultima volta è accaduto nel 1952, quando le telecamere non inquadravano i calciatori sillabarne le parole prima del march. E c'è da giurare che alla prima occasione - che poi sarà contro l'Italia a Milano, il prossimo 23 settembre - Sterling e Henderson dovranno destinare un po' della loro concentrazione agonistica per ricordarsi il cambio del testo: non più queen ma king. Va detto che un po' saranno avvantaggiati dalla metrica simile, peggio andrà (ma ai sudditi poco interesserà) ai titolisti italiani, che da decenni abusano della formula «Dio salvi la regina». Per loro due sillabe in meno, e rime da rifare.

Va detto che l'inno britannico è stato cambiato diverse volte nella sua storia, adattandosi al royal gender: quando entrò in uso, nel 1745, era ad personama e recitava: «Dio salvi il grande Giorgio, il nostro re, lunga vita al nostro re, Dio salvi il re». Poi dopo la «maschilizzazione» delle royal lyrics, il problema si pose solo per le due parentesi femminili della storia del regno britannico, però belle lunghe: i 64 anni di Vittoria, tra il 1837 e il 1901 e i 70 di Elisabetta II, dal 1952 al 2022. Insomma, nei 277 anni di vita dell'inno, per quasi la metà del tempo i cittadini britannici hanno dovuto cantarlo in versione queen. Potere della longevità.

Ma l'inno è solo l'inizio. Ci sono le banconote, 80 miliardi di sterline per un totale di 4,5 miliardi di pezzi in formato cartaceo che recano il sorriso «giocondesco» di Elisabetta e che hanno corso legale non soltanto in Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord ma anche in Canada e in altre parti del Commonwealth. Naturalmente è impensabile stampare e sostituire immediatamente una simile massa di contanti, anche se probabilmente il layout con il faccione di Charles è già pronto, anche perché già utilizzato per un conio celebrativo emesso nel 2018, per i suoi 70 anni, dal Royal Mint. Le banconote elisabettiane continueranno ad avere corso legale e il turn over avrà luogo progressivamente, su questo la Bank of England ha voluto rassicurare i sudditi più cash-oriented.

Il volto di Elisabetta troneggia anche sui francobolli della Royal Mail, con cui chi ancora lo fa potrà continuare ad affrancare lettere e cartoline. Poi da gennaio arriveranno quelli «carliani». E a cascata si dovrà provvedere ai passaporti su cui compare la dicitura «Her majesty». Alle cassette postali e alle bandiere e ai vessilli con la sigla latina EIIR (Elizabeth II Regina), che diventerà CIIIR. Alle sigle ER presenti ovunque che diventerà CR. Ai libri di preghiere della Chiesa d'Inghilterra, di cui il regnante è capo e difensore e per questo citato in molti passaggi. Ci sono le circa seicento aziende di ogni latitudine che riforniscono la Royal Family ogni genere di bene, dai biscotti al gin, dagli ombrelli alle saponette, e alle quali Carlo dovrà rinnovare il «contratto». Molti di loro vantano bene in vista il simbolo della corona e la scritta «by appointment to HM the Queen», per nomina di sua maestà la regina. Sarà per questo che il sito dell'associazione che riunisce i «Royal warrant holders», ieri in headline piangeva la regina e cocludeva «God save the king». Meglio tenerselo caro, il buon Carlo.

Non sia mai scegliesse un'altra azienda di giardinaggio.

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