Magistratura

"Io magistrato rovinato dai colleghi"

Intercettazioni a strascico e assoluzione impugnata. "Ora so di cosa sono capaci"

"Io magistrato rovinato dai colleghi"

«Faccio il magistrato da più di trent'anni - dice Andrea Padalino - e non avevo capito di cosa fossero capaci alcuni miei colleghi. Facevo il mio dovere, rispettavo e applicavo la legge, davo per ovvio che tutti lo facessero. Le lamentele, le denunce di abusi, le ho sempre guardate con un po' di sufficienza. Invece adesso è toccata a me. E ho scoperto di cosa sono capaci quando hanno deciso di distruggerti». Pochi giorni fa il processo a Padalino è finito. In niente. Era stato assolto con formula piena in primo grado, la Procura di Milano ha fatto appello, in aula la Procura generale ha annunciato: il ricorso è ritirato. Nessuna delle accuse ha mezza prova a sostegno. L'assoluzione diventa definitiva. Padalino ora chiederà di tornare a Torino, dove per le sue indagini sulle violenze anti-Tav era finito sotto scorta. E dove i suoi stessi colleghi lo hanno preso di mira, indagando su di lui per storie inesistenti di abusi e favori. Gli abusi, quelli veri, erano dall'altra parte.

Quelli dei pm che indagavano su Padalino senza averne il diritto e la competenza. E quelli di chi per distruggerlo ha usato l'arma di cui in queste settimane si parla di più sul fronte della giustizia: le intercettazioni. Andavano a strascico, i pm di Torino. Quando il nome di Padalino compariva in una intercettazione, immediatamente la carta finiva ai giornali. La peggiore? «Quando hanno scoperto che avevo chiesto a un carabiniere che passava davanti alla scuola dove avevo iscritto mia figlia alla prima elementare se poteva chiedere in che sezione l'avevano messa. Nessuna pretesa, nessuna pressione.

Qualcuno l'ha fatta arrivare ai giornali. Mia figlia a sei anni ha iniziato la scuola col marchio addosso della raccomandata, della figlia del giudice maneggione. Non si sono fermati neanche davanti a una bambina». Lo stillicidio delle intercettazioni va avanti per anni. «Le intercettazioni - dice Padalino - servono, sono uno strumento fondamentale per le indagini. Ma io ho toccato con mano qualcosa di ben diverso: le intercettazioni fatte per massacrarti non solo con l'inchiesta ma anche a mezzo stampa. E quanto più l'indagine non arriva a nulla, quanto più non riescono a trovare niente di rilevante contro di te, tanto più scelgono di distruggerti mediaticamente grazie al filo diretto tra magistrati e giornali. Vieni additato al pubblico ludibrio sapendo che contro il giudizio della gente non esiste appello possibile». Il sistema è sempre quello: brogliacci senza tracce di reato che vengono inseriti comunque negli atti, e transitano da un atto all'altro fino a diventare di pubblico dominio. «Non sono - dice ancora Padalino - incidenti di percorso, sono operazioni pianificate per distruggere la reputazione delle persone utilizzando fatti privati, ricostruiti con spezzoni di frasi trascritte in qualche modo e interpretate a comodo». Appena il suo nome era comparso nelle intercettazioni, prima ancora di iniziare a indagare su di lui la procura di Torino avrebbe dovuto fermarsi, inviando tutti gli atti a Milano. Ha continuato a farlo col sistema consueto: indagava sui presunti complici, e intanto raccoglieva carte sul collega nel mirino. Sulla porta del suo ufficio nel tribunale di Vercelli, il giorno della assoluzione definitiva Padalino ha affisso un messaggio: «Grazie a chi mi ha aiutato a resistere in questa tempesta».

Tra i messaggi di affetto che gli sono arrivati subito dopo, quello di una sua vecchia compagna di scuola, figlia di uno dei più importanti magistrati italiani del Dopoguerra.

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