Cronache

"Io non riesco ad avere pietà Per me deve morire in carcere"

Il giornalista scampato all'autobomba di via Fauro nel '93 «Lo Stato ascolti i parenti delle vittime, soffrono ancora»

"Io non riesco ad avere pietà Per me deve morire in carcere"

Non lascia aperta neppure una fessura. E risponde secco e quasi arrabbiato, ponendo lui domande che non attendono replica: «Giovanni Falcone è morto con dignità? E Paolo Borsellino?».

No, Maurizio Costanzo non vuole che un velo di pietà avvolga gli ultimi giorni di Totò Riina. E sgrana, come si fa in guerra, la litania delle croci: «Le persone cementate nei piloni sono morte con dignità? Glielo chiediamo ai parenti? E il bambino sciolto nell'acido?».

Costanzo, i giudici della Cassazione hanno sbagliato?

«È la decisione più assurda del 2017».

I magistrati hanno applicato un principio del diritto.

«Scusi, ma allora quelli che sono morti in carcere hanno perso la dignità? Bernardo Provenzano, per esempio, è andato all'alto mondo mentre era al 41 bis».

È giusto essere così duri con i vecchi boss ormai malati?

«Per me Riina può morire tranquillamente in carcere. Mi dispiace, ma io non riesco ad avere nemmeno un briciolo di pietà».

Forse perché lei è stato toccato sul piano personale?

«Forse perché questo signore e i suoi sgherri hanno provocato troppo dolore, troppe morti, troppo di tutto».

Costanzo, insisto, lei ha un conto aperto con Riina.

«Magistrati e avvocati mi hanno raccontato come si sviluppò la trama. Io avevo bruciato davanti alle telecamere una maglietta di Cosa nostra. Riina vide e commentò: Questo Costanzo mi ha rotto i c... Quella fu la mia condanna a morte. Se l'attentato avesse avuto successo, chi l'avrebbe spiegato ai miei figli?».

Però si salvò.

«Quel giorno il mio autista storico aveva chiesto un permesso. Così all'ultimo minuto cambiai auto e chauffeur. Fu la mia fortuna».

Perché?

«Quando l'auto su cui viaggiavo con Maria, che come al solito era venuta a prendermi al teatro Parioli, e il mio cane arrivò a tiro, in via Fauro, il mafioso che doveva premere il bottone esitò un istante».

Non era sicuro che fosse proprio lei?

«Certo. Quei pochi secondi di incertezza furono decisivi. Noi girammo l'angolo. Una frazione di secondo dopo la 600 imbottita di tritolo esplodeva. Io pensai allo scoppio di una caldaia. Poi capii e, retrospettivamente, ebbi paura».

Maria De Filippi?

«Subì uno choc fortissimo. Non andò in analisi, ma quasi e mi fece giurare che per lungo tempo non mi sarei più occupato in tv di mafia. Ho mantenuto la promessa».

Il processo a Firenze se lo ricorda?

«Puntai verso le gabbie dei Corleonesi. Per un attimo li guardai in faccia, poi mi girai dall'altra parte. Non ho nemmeno chiesto un risarcimento».

Come mai?

«Per me era sufficiente essere ancora vivo».

Ma perché lo Stato non dovrebbe concedere i domiciliari a un vecchio che non si regge nemmeno più piedi?

«E allora Riina esca dalla galera. Così Cosa nostra si fortifica».

Parliamo di un malato terminale.

«Che muoia in carcere. E poi in galera si viene curati».

La Cassazione va oltre le medicine.

«Io no».

Un attimo. Lo Stato non può fermarsi alle sensazioni e alle emozioni. Buttare la chiave della cella potrebbe essere un gesto di debolezza più che di coraggio.

«Se è così, viva la debolezza delle istituzioni. Lo Stato deve ascoltare anzitutto i parenti delle vittime che soffrono ancora».

Voltare pagina?

«Io ho ancora nelle narici l'odore della polvere da sparo al mio arrivo in via d'Amelio il giorno dopo la morte di Borsellino. E ripenso all'accoglienza che io, Santoro e Biagi ricevemmo in Sicilia la sera stessa in cui a pochi chilometri di distanza era stato massacrato Giovanni Falcone. Quell'applauso mi fa ancora venire i brividi.

E lo porto sempre con me».

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