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L'acqua pubblica grillina ci costerà 15 miliardi

La legge in cantiere moltiplicherà le poltrone E a regime peserà sui cittadini 5 miliardi l'anno

L'acqua pubblica grillina ci costerà 15 miliardi

Metti che al ministero dell'Economia non si siano accorti che, fuori dalla legge di Bilancio, ci sono 15 miliardi di spesa non prevista. E che i sostenitori dell'acqua di Stato, non abbiano tenuto conto che il loro progetto peserà sui contribuenti per altri cinque miliardi ogni anno. Il tema non è di attualità, ma le cifre sono di tutto rispetto anche di fronte alla manovra.

Dopo il reddito di cittadinanza, il prossimo provvedimento di bandiera per il M5s potrebbe diventare il progetto di legge AC52 prima firmataria Federica Daga. L'intento è la «ripubblicizzazione» dell'acqua. Che poi in Italia non è così privatizzata come si possa pensare. Il 97% degli italiani è servito da società prevalentemente pubbliche, solo il 3% sono società a controllo prevalentemente privato o del tutto privato.

Per il M5s bisogna comunque tornare alla gestione diretta dei comuni attraverso le aziende speciali, enti di diritto pubblico che sostituiscano le attuali società, prevalentemente a capitale pubblico.

La legge istituisce un fondo per la ripubblicizzazione. E non è un caso. Il governo dovrà farsi carico di una serie di costi. Dall'indennizzo da versare all'ex gestore, l'estinzione anticipata dei finanziamenti. I comuni dovranno essere indennizzati per i mancati canoni attualmente incassati per l'uso degli acquedotti.

Il costo una tantum del ritorno allo Stato secondo l'associazione che rappresenta la quasi totalità dei gestori idrici - guidata da Giovanni Valotti, presidente di A2A -è appunto di 15 miliardi.

La ripubblicizzazione dell'acqua comporterà poi dei costi fissi. La legge ribalta lo schema che si è imposto a partire dagli anni Novanta che vuole i servizi pagati prevalentemente con tariffe e in misura minore con le tasse che assicurano l'universalità del servizio. Quindi, a pagare l'acqua sarà in primo luogo la fiscalità generale (tasse nazionali e addizionali locali), le tasse di scopo ed infine le tariffe basate sui consumi. Sono circa 5 miliardi in più all'anno che lo Stato dovrà mettere a bilancio.

Il ritorno alla gestione diretta dei comuni comporta altri problemi. Ad esempio si ricreerebbero le condizioni che «sono all'origine del gap infrastrutturale oggi esistente: l'alternanza di finanziamenti legati alle stagionalità politiche anziché alle logiche progettuali e industriali», segnala l'associazione delle ex municipalizzate. I comuni non investono, insomma. Poi la riorganizzazione della gestione dell'acqua ritornando alla divisione del territorio in province e non sulla base degli ambiti territoriali ottimali, che sono definiti sulla base delle caratteristiche idrogeologiche del territorio.

Non ultima, la moltiplicazione della burocrazia che distribuisce e controlla e amministra. Al controllo del ministero dell'Ambiente si rischia di dovere aggiungere i controlli di sette autorità di distretto e più di 400 tra consigli di bacino e subbacino. «Un raddoppio dei soggetti coinvolti».

Al di là del merito la legge sull'acqua pubblica rischia di diventare il nuovo tema di scontro politico tra Lega e M5s.

Al partito di Matteo Salvini la legge non piace, ma per i pentastellati è un tema identitario.

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